mercoledì 20 novembre 2013

Le Miroir (Lo specchio) - 6^ episodio: Rivelazioni

 (riprende dal 5^ episodio)

Non capita di frequente dover scendere delle scale nella completa oscurità. Prima d'ora, avrei pensato fosse normale farlo per raggiungere qualche vecchia cantina, per cercare qualcosa di antico, caduto nel dimenticatoio. Un ricordo d'infanzia, qualcosa che era appartenuto agli avi della famiglia, e che ora, chissà perchè, aveva catturato la curiosità e aveva acceso improvvisamente la voglia di andarlo a riscoprire, in mezzo a tante altre cose dimenticate. La situazione nella quale mi trovo è decisamente diversa da quella che può essere paragonata ad una discesa in cantina, eppure la sensazione che mi accompagna è proprio quella della curiosità di andare a riscoprire qualcosa di antico e prezioso che avevo dimenticato, per riprenderne il possesso.
Il rumore dei passi che scendono gli scalini sono l'unico legame con la realtà che la mia mente riesce a percepire. Il resto è paradossale. Mentre scendo, anziché avvertire più gravità, sento rarefarsi l'aria, proprio come mentre si sale di quota verso la cima di una montagna, e tutto mi sembra più leggero. Mentre la sensazione di curiosità che mi pervade mi invita ad una discesa più veloce, i miei passi rallentano.
Mentre la mente è in evidente affanno, perdendo via via ogni appiglio con ciò che considera reale, da una parte di me più nascosta, arriva l'impulso di continuare in questa irreale discesa nel profondo. La mia bellissima guida mi precede, e questo mi basta.
Non ho idea di quanto tempo sia trascorso da che ho cominciato a scendere questi scalini, ma il tempo è un problema che riguarda solo la parte razionale di me, che sento sempre più distaccata.
Una luce blu, soffusa, appare all'improvviso: si materializza una stanza, un ambiente nuovo mi avvolge. Al centro si trova un tavolo da riunioni, tondo, con due poltrone, una opposta all'altra. Le pareti che irradiano la luce blu che ora appare molto più acceso, sembrano di cristallo e circondano tutta la stanza, anch'essa tonda. La cosa che mi colpisce, è che non riesco a scorgere il soffitto, che sembra fatto di sola luce. Una luce bianca che, stranamente, non si riflette né si mescola col blu intenso che avvolge e colora l'ambiente, dando un suggestivo senso di infinità allo spazio in cui mi trovo, che potrebbe definirsi una stanza a cielo aperto.
La mia guida mi invita ad accomodarmi su una delle poltrone. Mi siedo, mentre lei rimane in piedi di fronte a me.
Io, che ormai ho perso la mente fatta di realtà, trasportato da non capisco quale forza in un luogo meravigliosamente irreale, non riesco più nemmeno a porre le domande che, in questo frangente, sarebbero le più ovvie: “Dove siamo? Perchè siamo qui? Cosa succede ora?”.
Lei, che sembra conoscere esattamente tutto quello che si muove nella mia mente persino a mia insaputa, risponde a ciò che non riesco a chiedere:
“Siamo ovunque, e in nessun posto. So che ti sembrerà irrazionale, magari fantascientifico, ma questo è il luogo che ti sei costruito tu, dentro te stesso, e che hai voluto rendere reale nel momento in cui hai deciso di intraprendere questo tuo viaggio per trovare qualcosa che credevi di aver smarrito: quella che tu chiami la rotta. Questo luogo esiste solo perchè la parte più profonda di te aveva la necessità di creare all'esterno ciò che la tua mente non riusciva a percepire al suo interno. Ti trovi dentro di te, e questa non è altro che la meta del tuo viaggio. La tua razionalità, il tuo intelletto, la tua mente insomma, non erano capaci di crearlo mentre stavi seduto al bar di provincia, quando hai sentito il desiderio di partire da là. Così hai creduto di dover viaggiare, o salpare se preferisci, visitare città, osservare posti e persone, vivere situazioni normali e paradossali, provare sensazioni piacevoli e spiacevoli; ma tutto quello che hai vissuto durante questi giorni altro non era che il progressivo compiersi del tuo vero intento, ovvero trovare fuori da te stesso qualcosa che è in te stesso. Materializzare questo luogo era un tuo desiderio nascosto che la tua mente non sapeva decifrare e tradurre in realtà, perciò sono serviti paradossi, sorprese, anomalie della realtà per realizzarlo”.
Mentre quella bellissima creatura mi parla, mi rendo conto che accettare come vere quelle cose, che sino a poco prima avrei interpretato come assurde, è assai meno faticoso che bere un bicchier d'acqua quando la sete ti ha arso la gola. E' come se da dentro emergesse una parte di me nuova, sconosciuta, che non vede nulla di paradossale; si rivela con forza alla mia mente, che ne viene invasa e annullata.
Mi è perfettamente chiaro che la realtà che mi si para davanti in questo momento è esattamente come un film di cui io sono il protagonista, lo sceneggiatore e il regista: sino a poco prima ero troppo impegnato a recitare la mia parte e non me ne rendevo conto. Questa nuova rivelazione che si fa strada sempre più dentro di me, non tarda a dar conferma di se' e a manifestarsi anche alla mia vista: le pareti della stanza che irradiavano la luce blu, improvvisamente, cominciano a proiettare immagini, sembrano proprio scene di un film. Sono immagini, scene che già conosco. Sto assistendo alla proiezione della mia vita. Mi vedo recitare tutti i ruoli che ho interpretato da che ho posseduto questo corpo: l'infanzia, la scuola, il lavoro; la famiglia, gli amici, gli affetti; le gioie, i dolori; i successi e il “naufragio”, che mi ha condotto qui, seduto su una poltrona che, se la guardassi bene, mi accorgerei che reca sullo schienale la scritta “regista”. Come cineasta, non posso che constatare la perfetta qualità del film: è tutto perfetto, dalla sceneggiatura agli interpreti.
Mi compiaccio di vedere come tutta la storia, la mia, non abbia nulla che non vada: non ci sono scene da correggere, cattive recitazioni da “rigirare”. Prima, quando credevo di essere solo “attore”, pensavo che molte cose non fossero al loro posto: scenografie indesiderate, attori non all'altezza del loro ruolo. Tante cose da rivedere, da cambiare. Ma non può essere l'attore a decidere la storia: sono lo sceneggiatore ed il regista che stabiliscono ambientazione, dinamiche della storia, copione da recitare, co-protagonisti, interpreti secondari, caratteristi e comparse. Ora che so di ricoprire anche queste mansioni, me ne rendo conto.
Le immagini che scorrono sulle pareti della stanza stanno mostrando le ultime scene della storia, sono arrivate al momento presente, quando mi vedo qui, seduto su questa poltrona in una stanza blu a cielo aperto. Ora le pareti tornano ad irradiare la luce blu, ma oltre a quella, come uno specchio proiettano anche la mia immagine, che è la sola cosa che vedo attorno a me. La mia bellissima guida, che mi ha condotto qui, si è improvvisamente dissolta nel nulla, ma continuo a sentire la sua presenza, e la sua voce: “Questo è Le Miroir: lo specchio di quello che sei. Ora hai conosciuto la parte profonda di te, quella che fa accadere le cose e che ti aspettava qui, e cioè ovunque e in nessun posto”. Dopo una pausa, riprende: “Ora, caro naufrago, quella parte di te si materializzerà e si verrà a sedere di fronte a te: la conoscerai di persona e vi parlerete, io ora vi lascio”.
So che forse non la sentirò più, forse non la vedrò più, ma ho la certezza di non averla persa.
Ora mi avvolge il Silenzio, l'immagine di me stesso, proiettata di fronte a me, lentamente si dissolve, mentre sale l'intensità dell'emozione di conoscere chi si siederà al mio cospetto.

 (fine sesto episodio)

Marco Bertelli

venerdì 12 luglio 2013

Falene e Farfalle - 2^ e ultima parte

continua dalla prima parte

Una notte di inizio estate era fuori ad attenderlo, e lui, senza pensare a come l'avrebbe trascorsa, le corse incontro. La sua automobile lo accolse entusiasta, conscia del fatto che, quella notte, l'itinerario sarebbe stato ben diverso dal solito, diurno, nervoso sfrecciare su tangenziali trafficate e brusco frenare davanti a semafori di umore mutevole, tiranni del traffico cittadino. Sul sedile a fianco giaceva un cd, gentile omaggio di Vanessa, segretaria alla reception della sua azienda. Lei era l'unica che pareva non stupirsi dei suoi discorsi sulle falene, gli aveva dato il cd quella sera stessa, prima di uscire dall'ufficio, con la raccomandazione di ascoltarselo di notte, mentre guidava. Lui pensava che era strano che Vanessa, con la quale non aveva un rapporto granchè confidenziale, avesse quasi indovinato i suoi programmi per la serata, ma di stranezze era intrisa tutta la sua vita nelle ultime settimane, quindi non diede troppo peso all'episodio. Fu veloce, l'automobile, a scrollarsi di dosso le angherie del traffico metropolitano di un inizio week-end monotono e già stanco, e in breve tempo si era lasciata dietro di sé le luci della città, rese fioche dalla nebbia di falene che nottetempo si infittiva, formando quasi una cappa, che si aggiungeva a quella già esistente, fatta di fumi industriali e nevrosi umane. Così, improvvisamente, lui si accorse che la Notte, quella vera, aveva ben altre luci, e che il Buio era pieno di colori intriganti. La sbarra del casello dell'autostrada si era appena alzata, aprendo il sipario sull'asfalto notturno, il cd di Vanessa aveva appena iniziato a girare, lui cominciò a respirare sul serio, profondamente, abbandonando il "pensare" e abbandonandosi alla Vita. La musica cominciò ad invadere l'aria: un preludio di tastiere elettroniche, con sottofondo di acqua che scorre calma, una voce femminile dolcissima, quasi diafana, intonava una melodia struggente. Poi, quasi dal niente, il ritmo crescente di percussioni, e ancora suoni melodiosi di tastiere elettroniche che andavano a sovrapporsi al tutto. Il ritmo diveniva sempre più selvaggio e i suoni campionati disegnavano florilegi nell'aria. La luce della Luna piena, fortissima, sembrava riflettere oltre i raggi del Sole dal lato opposto del cosmo, anche i suoni celestiali della sua auto, amplificandoli, per la gioia di tutte le stelle che trapuntavano come diamanti tutto l'arazzo della volta celeste. Lui fu preso da una strana estasi. Aveva la netta sensazione che non fosse più la sua vettura a scorrere veloce sull'asfalto, ma questo a scorrere sotto le sue quattro ruote, ferme, passive. Era una sensazione vivida: lui, immobile col volante in mano, vedeva la strada, il paesaggio e la notte, venirgli incontro, quasi fossero cose vive, che lo invitavano ad entrare in scenari sempre nuovi, al ritmo di una musica artificiale, ma che sprigionava melodie sovrumane, quasi divine. La sensazione si prolungava, sino ad aderire perfettamente a qualcosa che lui percepì come “realtà”.
In quel preciso istante, la vide. Era una farfalla dalle ali bianche, immacolate; grandissima, bellissima. Aveva attraversato, muovendosi al ritmo della musica, tutto il cristallo del parabrezza anteriore, per andarsi a posare dolcemente sullo specchietto retrovisore esterno. Poteva vederla lì, a pochi centimetri dal suo naso. Lui fu colto da meraviglia infantile, e la gioia che aveva preso il suo cuore si espanse a dismisura quando vide arrivare le altre farfalle. Erano tantissime, coloratissime, le loro ali sembravano disegnate dal Divino in persona, e sicuramente, pensò lui, non poteva che essere così. Lui abbassò il finestrino, e le farfalle, che continuavano ad arrivare a lui sempre più numerose, magnificarono del palpito delle loro ali anche l'interno dell'auto. Frattanto, fuori, il paesaggio aveva improvvisamente smesso di scorrere, e si era fermato. Le farfalle improvvisamente scesero dall'auto, e lui le seguì.
Al posto di quello che, a rigor di logica, avrebbe dovuto essere una normale stazione di servizio autostradale, era una specie di ritrovo notturno. La scritta luminosa, sopra, recitava “Crazy Butterfly”, lampeggiando alternativamente di blu, verde, giallo e rosso. Entrò, preceduto dalle sue farfalle. Nessuno gli domandò il biglietto. Dentro il locale risuonava la stessa musica che l'aveva accompagnato nell'auto. L'ambiente era pieno di farfalle dai colori magnifici, che volteggiavano a tempo di musica deliziando i presenti, un pubblico di persone di tutte le età che gli sorridevano e sembravano lieti di vederlo aggiungersi alla loro compagnia, e al bancone bar, con sua sorpresa, incontrò Vanessa, l'amica della reception della ditta, che gli stava sorridendo e sorseggiava un cocktail.
“Tu ...qui?” disse lui.
“Io sono sempre stata qui” rispose lei sorridendogli.“piuttosto” proseguì lei “benvenuto a te, tra le farfalle”.
“Io credevo che si fossero estinte” disse lui “non vedevo che falene in giro”.
“Oh, le falene” riprese lei, “quelle siamo sempre noi farfalle”.
“Come sarebbe a dire?” chiese lui stupito.
“Non esistono falene e farfalle, quelle che vedi in città siamo sempre noi farfalle che ci travestiamo da falene. Lo facciamo per provocare. Per vedere quanti tra voi se ne accorgono, e quanti restano indifferenti” rispose lei.
“Ma cos'è, uno scherzo? Io avevo preso sul serio 'sta cosa, ed ora invece salta fuori che è una presa in giro!!!” sbottò lui, oltre che sorpreso, lievemente irritato.
“Beh, non credo sia uno scherzo. Quando ci viene ordinato di fare qualcosa, in genere, è roba seria”, disse lei tranquilla.
“Ordinato? Chi ve l'ha ordinato?” inquisì lui.
“L'istinto, l'intuizione. Viene da Madre Natura, o da Dio, adesso non so bene... Anche tu comunque ce l'hai, ricordi? Altrimenti cosa ci faresti qui, se non avessi intuito che qualcosa laggiù, in città, non andava?” disse lei serenamente.
“Perchè? Che senso può avere tutto questo?” domandò lui, mentre vedeva volteggiare meravigliose farfalle e ridere di felicità alcuni presenti.
“Beh, a quanto pare, ogni tanto, nel mondo, c'è qualcosa di vecchio che deve morire e qualcosa di nuovo che deve nascere. Il mondo deve cambiare, e pare abbiano deciso che il momento sia arrivato. Fenomeni anomali come quello di noi farfalle servono a segnalare che le cose stanno cambiando e aiutano le persone che se ne accorgono a scegliere. Tu stai conoscendo la differenza tra farfalle e falene. Così puoi scegliere. Che ne dici, ti piace qui?”, disse lei, alludendo, con un gesto della mano, al posto dove si trovavano.
Lui guardò negli occhi Vanessa, sorrise, ed ordinò al barista il cocktail specialità della casa.
Quella notte fu lunghissima, sembrò non finire mai.

Il lunedì successivo, lui si presentò in ufficio, puntuale come sempre. Sorrise a tutti gli sguardi perplessi dei colleghi, mostrò di ascoltare attentamente le critiche che il capo gli rivolgeva sulla pochezza dei risultati che aveva ottenuto la settimana precedente. Rise, senza farsi troppo notare, delle ossequiose risate di scherno dei colleghi, e del loro riverente buonumore diffuso.
Cominciò la nuova settimana disteso e sereno. Attorno a lui volavano solo Farfalle.

Marco Bertelli

giovedì 11 luglio 2013

Falene e Farfalle - Parte 1^

“Non c'è Luce nella luce del giorno. C'è solo nebbia. Una nebbia potente, tanto da sembrare invisibile, tanto da intrappolare la mente e addormentare il Cuore”.
Un pensiero ad alta voce, improvviso e perentorio, sussurrato alle gocce d'acqua che, indifferenti, scendevano nella doccia e correvano ad abbracciare le essenze di sandalo che aspettavano nel bagnoschiuma, versato abbondante sulla pelle già umida, per poi evolvere in un profumo dolce e inebriante. Lui sapeva che a nessun altro quel suo pensiero poteva essere rivelato. Ne era certo, perchè da un po' di tempo vedeva correre i suoi pensieri, come spinti da un'incontrollabile forza, lontano da quelli delle persone che popolavano la sua quotidianità.
A causa delle falene. Ce n'era un'invasione. Da qualche settimana a quella parte se ne incontravano ovunque, a stormi: per strada, nei bar, nei centri commerciali, nelle fabbriche, nelle officine, negli uffici. Persino nel suo climatizzatissimo e modernissimo ufficio, sede di una famosissima compagnia telefonica internazionale, che da lui, suo agente di vendita, si aspettava fatturati sempre più strabordantissimi.
Non è che lui odiasse le falene, anzi, gli erano anche simpatiche, e poi sapeva che erano del tutto inoffensive; il fatto è che le falene dovrebbero vivere di notte e nelle zone ad alto tasso di vegetazione. Cosa ci facevano (così numerose, tra l'altro) attaccate agli scappamenti delle auto in coda sulla tangenziale, o tra gli scaffali dei detersivi al supermercato, o sulla punta dei trapani negli studi dentistici, o sopra i display dei registratori di cassa delle farmacie, o nel portapenne sulla scrivania del suo capo, tra il tagliacarte d'argento e la Mont Blanc d'oro?
Aveva provato a parlarne in giro, ai suoi colleghi in primis: nessuno sembrava notare il fenomeno. “Ho da far firmare i contratti io, altro che pensare agli insetti, mica mi pagano le tasse quelli. Dovresti pensarci anche tu, sai? Per gli insetti c'è l'apposito spray insetticida”, questa era la risposta che veniva pedissequamente ripetuta da ogni bocca di collega, dopo che le rispettive orecchie avevano udito la domanda: “Ma hai visto quante falene ci sono in giro? Non ti sembra strano?”.
“Le falene sono innocue farfalle notturne, non zanzare-tigre. E poi un insetticida non le farebbe nemmeno starnutire. Stamattina, mentre ero all'ingorgo, ne ho contate ventitre che danzavano allegramente la samba dentro una nuvola diesel che usciva dalla marmitta di un tir polacco. E' una cosa del tutto assurda e innaturale”, tentava di far notare lui. Ciò che gli altri sembravano notare, però, era quel suo strano incaponirsi su quello che, secondo loro, era un casuale, insignificante fenomeno. Il fatto che tv, giornali e web, quasi non facessero menzione di tale fenomeno, contribuiva in maniera determinante a rendere ancor più imbarazzante la sua posizione nei confronti dell'opinione pubblica, rappresentata non solo dai colleghi ma anche da amici abituali e i familiari, che per sua fortuna non vivevano con lui, essendo egli un single nel mezzo del cammin di sua vita.
Molteplici correnti di pensiero si erano diffuse a proposito del suo recente stato mentale, tra parenti e conoscenti vari:
“Ha bisogno di una donna, di un rapporto solido”, pensava chi gli voleva bene.
“Sta diventando deficiente”, il restante 98,7 %.
“Lo stiamo perdendo”, concordavano tutti.
Lui, dal canto suo, un po' si stupiva delle altrui opinioni nei suoi riguardi, ma, ciò nonostante, continuava a mostrare preoccupazione per il fenomeno delle falene.
“Come mai non si vedono più farfalle, con le loro meravigliose ali vellutate, dai colori più fantasmagorici? Mi basterebbe anche una farfalla con le ali bianche, ma non ne vedo più nemmeno di quelle. L'altro giorno, andando a visitare un cliente poco fuori città, sono passato vicino ad un bosco. Mi sono fermato, sono sceso dall'auto e sono andato a vedere se trovavo qualche farfalla. Macchè, solo sciami di falene. Rumorosissime. Ne ho viste che ronzavano attorno ad un cinghiale che mi ha guardato preoccupato prima di addentrarsi nel bosco, scocciatissimo. Quasi fosse colpa mia...”. Questo fu il suo estemporaneo intervento, poco prudente secondo i più benevoli, effettuato nel corso della consueta riunione programmatico/motivatoria degli agenti di vendita del lunedì mattina, e che gli costò una serie di sguardi perplessi dei colleghi e osservazioni sarcastiche da parte del capo: “Ti vedo un po' strano ultimamente. Dicono alcuni tuoi colleghi, che da un po' di tempo ti interessi parecchio agli insetti, ma quel che è grave è che lo dice anche il report del tuo fatturato. Che pensi di fare? In questa azienda non è prevista la mansione di insettologo”.
Ossequiose risate di scherno dei presenti, riverente buonumore diffuso.
“Le falene non sono soltanto insetti, sono farfalle notturne, non dovrebbero girare a sciami di giorno. E poi si dice entomologo, non insettologo”, la sua laconica replica.
Imbarazzo generale. Silenzio. Il fatturato complessivo del gruppo di agenti, la settimana precedente, non era stato poi così disastroso. Il capo, pietosamente, decise di soprassedere.
Quell'osservazione del capo, però, fu il preludio di una settimana piuttosto deludente per lui. Continuava ad osservare quel fenomeno alquanto anomalo, e la parallela indifferenza altrui. Osservava, e questo era ancor più deludente, come i clienti si mostrassero ritrosi ad accettare proposte da un agente di vendita, simpatico sì, ma più incline all'entomologia che agli aspetti economici del contratto da firmare. Certo, lui si rendeva conto che non era tenuto a parlare di falene e farfalle durante le trattative, ma per lui era un impulso irresistibile, che non poteva e forse, in cuor suo, non voleva controllare. Un impulso che non sapeva bene da dove arrivasse, ma che sentiva di dover assecondare, quasi nascondesse in sé una rivelazione: ma quale?
Per il momento, l'unica cosa che a lui si era rivelata, era la spaccatura tra egli stesso e il mondo, evidenziatasi nella progressiva perdita di sintonia con gli schemi e i pensieri che, sino a poco prima, gli erano abituali. Spaccatura che si manifestava sempre più macroscopica nell'atteggiamento degli amici che era solito frequentare, e che ultimamente non gli chiedevano nemmeno più quali proposte avesse per il fine settimana, tali da rendere meno doloroso e noioso il passaggio del tempo che intercorreva tra le sei del venerdì sera e le otto del lunedì mattina successivo. Era da un po' che lui non riusciva più a pronunciare alcune parole, tra cui “stadio”, “pub”, “birreria”, “pizzeria”, “ristorante” e “discoteca”. Per i suoi amici questo suonava parecchio male; per loro, lui era diventato simile ad un soldato che non ricordava più la parola d'ordine, e che per questo non poteva essere riconosciuto come amico dalla sentinella di guardia al sacro altare del week-end.
Lui, in fondo, non se ne rammaricava più di tanto. Piuttosto, gli mancavano le farfalle. Questo, a ben vedere, era ciò che lo sconfortava più di tutto.
Così, quel venerdì sera, sotto la doccia, quell'improvviso pensiero. Quella nuova rivelazione che la sua voce rapiva dal cuore: “ Non c'è Luce nella luce del giorno. C'è solo nebbia....”. 

Fine prima parte
 

Marco Bertelli

mercoledì 1 maggio 2013

Il senso (non) comune delle cose

Primo Maggio 2013, ore 10,30 circa. Esterno di un centro commerciale qualsiasi della bassa padana. L'altoparlante che diffonde musica a caso, per il comodo sonno degli avventori che stanno varcando la soglia dello spaccio, si interrompe improvvisamente. La speaker annuncia: “La Signora Gesualda Strapacchioni è attesa urgentemente dal figlio al punto raccolta clienti”. Il nome della signora è ovviamente di fantasia, l'annuncio assolutamente no.
C'è un figlio che è alla disperata ricerca della madre, che non trova più.
A me, personalmente, piace capovolgere la cosiddetta “normalità”, ovvero il senso della realtà così come viene concepito dal “senso comune”. E' un esercizio che faccio quotidianamente, proprio perchè al cosiddetto “senso comune” non credo più da molto tempo, oramai. Quando, per esempio, vedo padre e figlioletto che passeggiano in un posto qualsiasi, sono più propenso a pensare che sia il bimbo che “tiene” la mano del padre, e non viceversa, come ai più verrebbe spontaneo pensare.
Capovolgere il “comune” senso delle cose, in effetti, più che un “esercizio”, è un modo come un altro di vedere la realtà. Mi rendo conto (senza rammarichi da parte mia) che parlarne in giro non depone molto a favore della mia “sanità mentale” agli occhi dell'opinione pubblica, ma quell'annuncio di cui sopra, se non altro, mi da un po' di coraggio nell'affrontare le perplessità degli assertori del “senso comune”, nel caso volessi aprire con loro un dibattito sulla validità del medesimo. No, meglio di no. Nessun dibattito. Non mi interessa imporre ciò che io suppongo sia l'assoluta validità di una teoria “sconvolgente”, né, a mia volta, mettere in discussione la “sanità mentale” di chicchessia.
In fondo, ognuno vede ciò che crede di vedere.
Sta di fatto che i genitori che un tempo “perdevano” i loro pargoli irrequieti che si allontanavano per i fatti loro, attratti da chissà quali curiosità, mentre i genitori magari erano impegnati a contemplare, fantasticando, qualche vetrina che calamitava a livelli inverosimili la loro attenzione, oggi vengono “smarriti” dai rispettivi figlioli, costretti a rivolgersi al personale di servizio per recuperarli.
Forse ci dovremo abituare ad episodi di questo tipo, o forse ci siamo già abituati. Anzi, credo proprio che ci siamo talmente abituati, che già non ci facciamo più caso.
Nessuno, o quasi, ha fatto per esempio caso al fatto che oggi, Primo Maggio, festa dei lavoratori, ci sono un sacco di negozi aperti nelle città e centri commerciali di periferia che funzionano a pieno regime, con personale di servizio efficientissimo, che recupera genitori smarriti con brillante facilità.
Per il “senso comune”, oggi dovrebbe essere la Festa dei Lavoratori.
Per il mio “senso (non) comune”, oggi è un giorno in cui, come in tutti gli altri giorni, il lavoro ha “fatto la festa” ai lavoratori.
Pensate pure, se vi piace, che io abbia problemi di “sanità mentale”.

Marco Bertelli

giovedì 25 aprile 2013

Eremo

Mi chiamo Eremo e sono un Partigiano. Noi Partigiani facciamo come i frati quando entrano in convento: cambiamo nome. Quando saliamo sui monti a combattere, cambiamo anche pelle. Diventiamo l'idea di noi stessi: il nostro nome da Partigiani è la nostra Fede.
“Mi sento di morir”, dice una frase della nostra canzone. Ma noi siamo già morti, per fortuna.
Abbiamo già ucciso noi stessi e tutto quello che eravamo prima di decidere di combattere.
Abbiamo abbandonato il nostro lavoro, la nostra casa, la famiglia, gli amici. Adesso loro non esistono più per noi, e non sappiamo se domani esisteranno ancora, ma è per amor loro che siamo qui, perchè, indipendentemente dalla nostra sorte, loro devono continuare ad esistere.
I miei Compagni mi hanno chiamato così perchè sono uno che non sta tanto in compagnia. Non mi hanno dato questo nome per scherzarmi o per farmi sentire isolato. Tra di noi non esiste cattiveria, perchè siamo uniti dalla stessa sorte e non possiamo odiarci. E non ci sentiamo mai soli, perchè anche quando non ci parliamo e ognuno di noi guarda in direzioni diverse, sentiamo fin dentro alle ossa che ognuno di noi sorveglia gli altri e rischierebbe la propria vita pur di togliere un suo Compagno dal pericolo. E' così che si vince la guerra.
A me piace stare isolato, un po' lontano dagli altri miei Compagni. Mi piace osservarli, ascoltarli quando parlano e ridono tra loro, bevono vino rosso e raccontano di quello che erano prima della guerra, e fantasticano su quello che vogliono essere dopo. Sto zitto e sorrido: non potrei aggiungere o togliere altro ai loro discorsi, che sono anche i miei.
Quando questa guerra sarà finita, qualcuno di loro non tornerà alla casa che aveva lasciato prima di salire quassù. Altri torneranno, ma non troveranno più nulla, se non macerie. Altri ancora troveranno tutto quello che avevano lasciato, e qualcuno ad aspettarli.
Da lì ricomincerà la loro nuova vita, nata dalla morte di quella precedente.
In mezzo a quelle vite, loro sono stati Partigiani.
Chissà per quanto tempo se ne ricorderanno, e chissà per quanto tempo le generazioni a venire ascolteranno i loro racconti, e cercheranno di capire l'amore, l'odio, la paura, il coraggio, la speranza il dolore e la voglia di Pace che si provano quassù, dove si dorme a turno, abbracciati ognuno alla propria mitraglia, e si combatte per fare in modo che questa guerra sia finalmente l'ultima.
Non lo so. Ma io ho scelto: anche quando tutto sarà finito io rimarrò qui, su questi monti.
E rimarrò vivo per sempre, perchè io sono già morto e ho oltrepassato il tempo.
Chi mi verrà a trovare potrà ascoltare la storia di noi Partigiani, pronti a combattere per la Vita di altri, per la loro Vita. E se sentiranno la minaccia di un altro invasore, io li guiderò tra i sentieri e i boschi di questi monti, nei casolari dove si rifugiano i Partigiani e dove i Partigiani rinascono a nuova Vita, per combattere. E mi unirò a loro.
Eremo, il Partigiano, è sempre pronto a combattere quando è necessario.

Marco Bertelli

martedì 16 aprile 2013

Sintomi


Non appena il display a fianco della porta dell'ambulatorio medico, davanti al quale era in attesa, segnò il suo numero, lui si precipitò all'interno dello studio, incurante del rumore roboante che aveva provocato il suo semplice spingere in basso e poi in avanti la maniglia della porta, che ora, dopo essere stata rapidamente richiusa, traballava a causa dello spostamento d'aria che quell'impetuoso movimento aveva provocato.
Era troppo agitato. Entrò quasi trafelato, nonostante l'attesa di prima non richiedesse alcun movimento particolare.
Proclamò a voce alta e senza alcun convenevole di rito: "Dottore, la prego, mi guarisca!!!".
Il medico, che stava ancora completando le operazioni di archiviazione al computer della visita precedente, non fu attratto nè dal fragoroso rumore dell'insolita irruzione del paziente, nè dalla preghiera che, lanciata ad alto volume, aveva interrotto la quiete che faceva parte delle "regole" del suo lavoro.
Restò all'apparenza indifferente, il Medico. Diede una occhiata di sfuggita al paziente, tanto per capire chi fosse, e poi, tranquillamente, facendo cenno al paziente di accomodarsi sulla sedia di fronte a lui, disse: "Mi dica".
E impetuoso come un'onda nel mare agitato, lui riprese: "Mi dica...???, Mi guardi, piuttosto!!! Non vede che razza di macchia ho sulla faccia??? Le sembra normale che stamattina al risveglio mi sia ritrovato questa roba in faccia??? Non vede che disastro????"
Il Medico, allora, aggiustatosi meglio gli occhiali sul naso, lo osservò più attentamente, ma solo per qualche breve istante. Tornò ad assumere un'atteggiamento apparentemente più distaccato e, impassibilmente, disse: "Si, ho visto..... ma, scusi, lei che vuole da me?"
Lui rimase interdetto, incapace di comprendere il motivo di una risposta così incredibile: un po' come avesse chiesto ad un passante "scusi, sa mica l'ora?" e quello avesse risposto, andandosene, "certo che la so!!!".
Per un attimo il paziente  pensò di addebitare quello strano atteggiamento del Medico, all'impudente e poco riverente comportamento che egli stesso aveva assunto all'ingresso. In effetti, tutto quel frastuono, senza nemmeno un saluto al "padrone di casa", e  la perentorietà di un "mi guarisca!!!" pronunciato ad alta voce, non dovevano aver fatto buona impressione.
Durò pochi fuggevoli istanti questo suo pensiero, perchè fu il Medico, stavolta, a rompere il silenzio.
Si alzò quasi di scatto dalla sedia, mentre scrutava severo gli occhi del paziente ora muto, si diresse verso la finestra che dava sul  giardino, e, le mani unite dietro la schiena, dando le spalle al paziente, cominciò:
"Mi guarisca!!!... Dottore, sono malato, ci pensi lei!!!", disse con evidente tono ironico, con l'intento di sfottere bonariamente la categoria dei pazienti tutti.
"Malato... ma malato di che? Lei crede che la macchia che le è comparsa sul viso stamane sia una malattia, non è vero?" Chiese voltandosi di scatto verso il paziente.
"Beh, veramente... non saprei... sono qui perchè vorrei guarire e non vedere più questa macchia" rispose lui, "pensavo che, dopo avermi esaminato, lei mi avrebbe ordinato dei farmaci, e che quei farmaci mi avrebbero fatto tornare normale".
Il Medico, allora, tanto per rendere ancora più surreale il tenore della conversazione, che si stava sostituendo ormai all' ordinaria visita medica, si girò di nuovo, viso alla finestra, e irruppe in una fragorosa quanto sincera risata. "Aahahahahah!!! Allora è questo che lei vuole!!!!",  disse sostenuto dall'onda del riso, "Lei stamattina si sveglia con un sintomo, e tutto quello che le serve, secondo lei, è un farmaco che  cancelli il sintomo dalla sua vista, facendola così tornare.... normale".
Lui, il paziente, colto di sorpresa, si sentiva affondare nella sedia, non riusciva a seguire il discorso, era sopraffatto dallo smarrimento. "Come sarebbe a dire sintomo?", Chiese timidamente, "Cos'altro è questa brutta macchia se non una malattia che lei mi dovrebbe aiutare a curare?".
Il Medico riacquistò la serietà che si impone alla sua professione, e giratosi di nuovo verso l'interlocutore, riprese:
"Cellule. Noi siamo miliardi e miliardi di cellule. Ogni volta che ci guardiamo allo specchio ci consideriamo per come la nostra immagine si riflette, ma non ci consideriamo mai per come siamo composti. Pensiamo, ogni volta che siamo davanti ad uno specchio, che sia una persona sola quella che si sta guardando, in realtà sono miliardi e miliardi, e sono tutte lì, in quell'immagine, e tutte che si credono la stessa persona, che vedono la stessa immagine e che pensano la stessa identica cosa di quell'immagine. Stamattina, lei, guardandosi allo specchio, ha scoperto una cosa straordinaria. Alcune delle sue cellule, evidentemente scontente di come lei le tratta, hanno indetto una manifestazione di protesta, e si sono riunite proprio lì, in bella vista sul suo viso. Sono cellule scontente, sono le cellule precarie del suo corpo, vengono da tutto il suo corpo, dai piedi, dalle braccia, dalla schiena, insomma da tutto lei stesso. Protestano per come lei le tratta, forse per quello che mangia, forse per le abitudini stressanti che la sua vita quotidiana, in modo scorretto, impone al suo corpo e, quindi, a tutti i suoi miliardi di cellule. Lei mi chiede di farle sparire, ma forse sarebbe meglio ascoltarle, perchè queste cellule vogliono parlare a lei".
Lui, il paziente, era ormai di sasso, con gli occhi sbarrati. Preso dalle immagini surreali che il Medico aveva così vividamente materializzato nel suo animo, non sapeva più se era spettatore di un racconto di fantascienza, o se ne era il protagonista.
Il Medico aveva capito che il suo paziente era disorientato. Si era quasi compiaciuto, il Dottore, di quella sua prolusione così fuori dalle righe, ma d'altronde, era fuori dalle righe anche il modo con cui la visita si era delineata, fin dal momento dell'irruzione del paziente in studio.
Si rigirò ancora, viso alla finestra, e cercando di risvegliare dal torpore il paziente, disse: "Spero abbia capito che il suo caso abbisogna di approfondimenti. Potrei, sì, prescriverle alcuni farmaci che possono lenire gli effetti visivi del fenomeno che lei manifesta, lo potrei fare come lo potrebbe fare qualunque farmacista, ma forse lei, che ha  detto di essere malato, vorrebbe davvero guarire, non è vero?."
La domanda, sospesa nell'aria, stava attendendo la risposta del paziente, e il medico, nell'attesa, si era per un attimo distratto, incuriosito dei colori del giardino su cui si affacciava la finestra dello studio. Rimase alcuni istanti ad ammirare la luminosità di quei bellissimi colori, che risaltavano, sgargianti, sotto la luce del tiepido sole d'aprile.
Non avvertendo cenni di risposta alcuna da parte del paziente, il Medico si girò, e,  con suo grande stupore, si accorse di essere rimasto solo.
Non seppe indovinare se il paziente se n'era andato perchè troppo confuso o, semplicemente, perchè illuminato dall'idea che anche il farmacista avrebbe potuto cancellare la macchia sul  suo viso.
Si limitò a pensare: "Non si poteva fare a meno di notarlo quando è entrato, non si riusciva a sentirlo quand'è uscito"

Marco Bertelli

lunedì 8 aprile 2013

Eyes wide shut

Un Autobus di viaggiatori ignari della loro destinazione parte dal centro di Roma. Seguito da un codazzo di paparazzi, altrettanto ignari della strada da percorrere, ma per nulla intenzionati a desistere dall'inseguimento. Gli ignari viaggiatori sono rappresentanti del Popolo Italiano, regolarmente eletti alle ultime consultazioni elettorali. I paparazzi, invece, sono curiosi ometti regolarmente autorizzati a difendere la cosiddetta “libertà di stampa”: vengono chiamati giornalisti. Quello che è successo qualche giorno fa, ci piaccia o no, è esattamente questo: una comitiva di parlamentari, in teoria liberi cittadini con facoltà di decisione sulle sorti della nostra nazione, che fanno una scampagnata fuori porta (c'è chi dice che durante il viaggio in autobus qualcuno abbia tentato di vendere loro delle pentole, ma la notizia non è confermata), inseguiti da ossessi in crisi da astinenza da scoop giornalistico.
Giusto un comico poteva inscenare una pantomima del genere, chi sennò? Il comico in questione, però, ha smesso di far ridere da parecchio. Anzi, pare che non rida più neanche lui, e che gli dia parecchio fastidio che lo facciano altri quando impartisce disposizioni ai suoi servitori regolarmente eletti. Ora deve muovere i fili di qualche burattino, e per far questo deve, tra le tante altre cose, bendare metaforicamente gli occhi di persone che dovrebbero tenerli ben aperti (è per questo che hanno ricevuto il voto degli elettori, caso mai ce lo fossimo scordati) e portarli in campagna per dar modo ai paparazzi col badge “Stampa”, incaricati di far casino, di inseguirli e descrivere scenari improbabili per fare in modo che tutti ne parlino.
Una sceneggiata niente male. Del resto... That's democracy, my friend (mi esercito, casomai fossi costretto ad emigrare all'estero e parlare con qualcuno di ciò che accade nella mia Patria).
La scena del viaggio in autobus con annesso inseguimento stile “Oggi le Comiche”, mi ha riportato alla mente un capolavoro del cinema, di un Genio di nome Stanley Kubrick; più che un regista, un creatore di pietre miliari. Il suo ultimo film, prima che se ne andasse da questo mondo nel 1999, si chiama “Eyes wide shut” (Occhi completamente chiusi).
Nel bellissimo film di Kubrick, il protagonista, Tom Cruise, vuole concedersi un'avventura extraconiugale, ma viene coinvolto in un intrigo dai risvolti sinistri. Nella sua brama di peccato, il protagonista del film si imbatte in un amico che riesce a farlo “imbucare” in una festa che in realtà si rivela essere la riunione di una società segreta di stampo vagamente massonico, dedita a celebrare i piaceri della carne previa esecuzione di riti vagamente satanici tra sacerdoti pagani e adepti camuffati con maschere. I paparazzi sono dei perfetti “Tom Cruise”, alla ricerca del brivido proibito, in questo caso camuffato da “diritto di cronaca”, per raggiungere il quale fanno l'impossibile, come ha dimostrato di voler fare quella cronista de “Il Fatto” (titolo di testata giornalistica o semplice participio passato? Boh) che pur di raggiungere lo scopo di documentare una riunione (solo teoricamente) segreta, e di essere l'unica a farlo, si è arrampicata sugli impervi tetti dell'oscuro luogo dove si svolgeva questa inquietante riunione. Tutto inutile. Del resto tutte le società segrete degne di questo nome, sanno quali contromisure attuare in difesa della propria privacy (nel film di Kubrick, Tom Cruise se ne è accorto a sue spese).
Al di là di questo, comunque, è interessante notare come sia i giornalisti che i grillini abbiano raggiunto il loro scopo. I primi hanno fatto la figura degli eroi, con la loro tenacia nel difendere il diritto di cronaca; i secondi invece hanno ottenuto che si parlasse di loro, e soprattutto che lo si facesse nel modo che loro prediligono, e cioè come i trasgressori del sistema, cosa che in realtà sono ben lungi da essere, ovviamente. Ma è bene che le cose sembrino così, sia per i grillini che per i paparazzi e i loro editori. E' bene che tutti, soprattutto il pubblico dei votanti (che sono anche lettori di giornali ed utenti televisivi e di web), vengano attratti da queste ridicole messinscene, di modo che continuino ad essere come sempre: “Eyes wide shut”.
A proposito, qualcuno davvero in gamba è riuscito ad infiltrarsi nella riunione segreta dei grillini. Non era un paparazzo, quindi possiamo fidarci di lui. Purtroppo non poteva essere Kubrick, ma ha lo stesso girato un filmato di quello che è successo in quella riunione.
Credevate che fosse una “riunione politica”? Manco per niente!!!
Una riunione tra massoni o satanisti? Macchè!!!
Ecco cos'hanno fatto Grillo e i suoi grillini:



 Marco Bertelli

giovedì 4 aprile 2013

Gospel



La storia dell'umanità ha conosciuto uomini la cui vita sembra trascendere il significato comune di esistenza.

Uomini il cui passaggio sul pianeta ha lasciato impronte più profonde di qualsiasi meteorite, ed  il segno che hanno lasciato è rimasto nelle coscienze degli umani, e non si può cancellare.
Uomini che hanno affidato la propria esistenza ad una Visione, che hanno sognato e materializzato dentro sè, ed offerto all'umanità.

Oggi 4 aprile, è il giorno in cui si commemora il sogno di un Grande Uomo. O per meglio dire, il giorno in cui questo sogno ha lasciato la sua impronta nelle umane coscienze.

Qualcuno, o qualcosa, il 4 aprile 1968, ha creduto che il modo per cancellare quel sogno, fosse quello di ammazzare Martin Luther King jr., che il sogno l'aveva concepito.
Qualcuno, o qualcosa, il 4 aprile 1968, ha creduto di poter decidere quali dovessero essere i sogni dell'umanità, e ha ucciso Martin Luther King jr., che aveva concepito un sogno diverso.

Spesso i malvagi vivono e si nutrono di ignoranza e paura, con cui  si illudono di soggiogare le vite della moltitudine degli uomini.

Non sanno che i sogni non restano imprigionati nei corpi degli uomini sepolti, perchè vengono da tempi lontani e volano in corpi futuri.
Non sanno che i sogni non hanno mai paura, perchè non esiste prigione in cui recluderli e non c'è proiettile che possa ferirli.

Grazie, Martin Luther King jr., per averci insegnato che il sogno non è un motivo per cui morire, ma un modo per continuare a vivere.


Marco Bertelli

lunedì 1 aprile 2013

Il Poeta

Guardo fuori dalla finestra: c'è un cielo che sembra non essere mai cambiato da quando l'autunno, sei mesi fa, ha spezzato l'estate. Sembra che la stagione della fioritura, quest'anno, abbia deciso di donare le sue delizie ad un pianeta diverso da quello che vedo dal mio balcone. Alla primavera non va proprio di passare da noi. O forse aspetta che siamo noi a pregarla, come una bella donna che ha deciso di vedere quanto riesce a far battere il cuore del suo amante.
Sembra esserci una sconcertante analogia tra l'anomalo grigio del cielo di questo aprile, e l'ancor più cupo grigio che si è insinuato nell'animo degli abitanti di questo pianeta/penisola che galleggia al centro del Mediterraneo. Il cielo grigio, l'aria fredda di un inverno non ancora stanco e le estenuanti piogge, contrastano con la pagina del calendario, aperta oggi sul mese di aprile.
Sembra la metafora di quello che succede alle persone. Lo si rivede, questo contrasto, anche nelle vicende politiche, che ci parlano di spaccature, divisioni, disaccordi. E' il riflesso di quello che siamo dentro. Un riflesso che non vorremmo vedere, perchè ci da fastidio, ma ogni volta che cerchiamo di non vederlo, mentiamo a noi stessi, e anziché stare meglio, non guardando in faccia a quello che ci ferisce, stiamo peggio. Non possiamo sfuggire a noi stessi, a nulla ci serve dare la colpa del nostro malessere al politico che non abbiamo votato, o alla primavera che non si decide ad arrivare. I contrasti che vediamo fuori di noi, li abbiamo provocati noi, perchè in realtà sono dentro di noi. Ma a noi italianucci di tutte le latitudini piacciono i contrasti, le dispute, le schermaglie. Cimentarsi in un dibattito aspro e magari infarcito di insulti e di qualche improbabile acrobazia logico-filosofica da bar, per noi italici è il massimo. C'è chi prospera su questo “sport nazionale”, ahimè non ancora diventata disciplina olimpica. Nuovi partiti che nascono per alimentare contrasti, con la scusa che “dobbiamo cambiare le cose” (guardandosi bene dal dire che in realtà prima deve cambiare  la coscienza collettiva), e vecchi partiti che non vedevano l'ora che nascessero i nuovi, per prolungare la loro sopravvivenza che ormai sembrava compromessa. Gli uni esistono e sopravvivono solo grazie agli altri. E' un giochino vecchio come il cucco, ma che funziona ancora benissimo:
“Il paese esprime sempre una volontà di cambiamento, e questa è la miglior garanzia dell'immutabilità politica. Basta non cambiare mai, di modo che il popolo possa continuare ad esprimere la sua volontà di cambiamento”.
Così lo descrive con magnifica semplicità il grande Scrittore Stefano Benni.
Ci sono Scrittori, in particolar modo certi Poeti, che vedono dove la gente cosiddetta “comune” non riesce a vedere. Non è affatto un caso che molti di loro incorrano nelle persecuzioni che i politici che detengono il “potere”, scagliano verso di loro. Questo perchè sanno che i Poeti possiedono quel modo di vedere le cose che, se si diffondesse tra la gente, potrebbe essere destabilizzante al punto di cambiare veramente le cose.
Ma questa è solo una mia personale riflessione, ovviamente, e molti di quelli che la leggono, naturalmente, stenteranno non poco a farla propria, preferendo pensare che i contrasti e le divisioni che frequentemente vediamo in tv e leggiamo sui giornali e sul web, siano un problema dovuto al malcostume, alla malapolitica, alla maleconomia, al “male” in generale, insomma, di cui siamo vittime in questo triste periodo di “Crisi”. E' normale sia così, altrimenti Benni non avrebbe scritto la frase sopra citata. Non importa. Io credo che un giorno, tutti riusciremo a comprendere questo meccanismo infernale che ci intrappola, e magari riusciremo a dare il significato che merita a una meravigliosa Poesia come questa:

Berimbau


Un uomo che è buono non tradisce
Quell'amore che desidera il suo bene
Chi troppe volte dice che se ne va, mai se ne va
E così, come non se ne andrà,
Mai più tornerà
Chi da dentro di se' non esce
Morirà senza aver mai amato nessuno
Il denaro di chi denaro non da
è il lavoro di chi denaro non ha
Un buon Capoeira non cade mai
E se un giorno cadesse
Cadrebbe bene
Capoeira mi ha mandato a dire
Che sta arrivando
Arriva per combattere
Il Berimbau mi ha confermato
Ci sarà da lottare per l'Amore
“Tristezza, amico mio”


Se non ci fosse l'Amore
Se non ci fosse il Dolore che da
Se non ci fosse la Sofferenza
Se non ci fosse il Pianto
Sarebbe meglio che nulla più esistesse


Io ho amato
Ho amato tantissimo
Quello che ho sofferto a causa dell'Amore
Nessuno ha mai sofferto
Ho pianto, ho perso la mia Pace
Ma ciò che ora so
E' che nessuno hai mai avuto tanto
Quanto io ho


Vinicius de Moraes

Grazie Poeta!!!

 
Marco Bertelli








mercoledì 27 marzo 2013

Le Miroir (Lo specchio) - 5^ episodio: Nel Profondo

(riprende dal 4^ episodio)

Tante sono le cose che non ci si aspetta di trovare quando si entra per la prima volta in un locale. Tra queste, il buio è senz'altro una delle prime. Che poi dal buio si diffonda una voce che ti accoglie con un “ben arrivato”, è una stranezza alla quale ormai si tende a non far troppo caso, annoverandola al solo scopo statistico tra le innumerevoli bizzarrie che ormai in questa vicenda hanno acquisito tutti i crismi della normalità. Certo, il buio che ti coglie all'improvviso ti disorienta, ti fa perdere il senso dello spazio e blocca la capacità di muoverti con sicurezza, ma quella voce gentile che dolcemente ti saluta, d'altro canto, ti tranquillizza e affievolisce l'istinto meccanico di annaspare con le mani nel buio a cercare la maniglia della porta di ingresso per farla diventare la maniglia della porta d'uscita. Quando poi il cigolìo dei cardini della vecchia porta della stiva di un antico relitto, aumenta di volume e culmina in un secco ed ermetico “clac”, ti accorgi che quella voce seduttrice ti ha definitivamente sottratto il tempo che avevi per decidere di squagliartela. Nel buio, ora invaso dal silenzio, cerco di fare amicizia col senso di smarrimento e di angoscia che si stanno impadronendo della mia mente; lo faccio nel modo per me più classico, e cioè gettandomi nel ridicolo, commettendo quella che si dice una “gaffe”. Rompo il silenzio: “c'è qualcuno?”, la mia improvvida voce spara nell'oscurità. La risposta arriva non dall'esterno, ma dal più fulmineo dei pensieri che la mia mente, lì per lì, riesce a produrre, e che è spietato: “Certo che c'è qualcuno, pirla!!! Ti hanno anche salutato, avresti potuto ricambiare quel saluto, anziché uscirtene con domande idiote!!!”. La mia mente, quando vuole, sa essere perspicace e critica al tempo stesso.
Ma ormai la “gaffe” è andata, posso solo sperare che passi inosservata. Non è così.
Dall'esterno risuona la stessa voce che poco prima mi aveva accolto, quasi con le stesse parole: “Naturalmente c'è qualcuno. Ben arrivato a Le Miroir, vuoi entrare?”.
La prima parte della risposta mi giunge alquanto sarcastica, la domanda finale invece mi lascia un po' allibito perchè ero convinto di essere già entrato, ma se non altro pare riveli l'intenzione di instaurare una conversazione. Decido di affrontare il dialogo, non senza rischiare una mia seconda gaffe: “non è che non voglia entrare, è che non saprei come uscire”. Stavolta la mia mente si astiene da qualsivoglia commento, anche perchè arriva prima la risata della voce seduttrice: “ahahahah!!! Ma certo, hai bisogno di vedere!!!”.
Improvvisamente il buio viene trafitto dalla luce arancione di una vecchia lampada ad olio. Non è una luce molto chiara, ma è sufficiente per mostrarmi almeno i contorni dell'ambiente in cui mi trovo. La prima cosa che noto e che mi lascia più disorientato del buio, è che in questa stanza sono da solo, e che la voce che mi parla, dunque, proviene da fuori. La lampada che ha infranto il buio è appesa al centro di una delle quattro pareti della stanza, che è piccolissima, ad occhio direi due metri per tre; sulla sinistra una porticina, dentro la quale si vedono degli scalini che scendono, sulla destra un'altra porticina, con degli scalini che salgono. Ai lati pareti senza aperture, così come lo è il soffitto. Dietro di me la parete con la porta dalla quale ero entrato, ma quella porta è solo disegnata sul muro ...è finta. Non avevo mai provato prima la sensazione di stare in una stanza senza esservi mai entrato, ma non è il momento di analizzare questa ennesima stranezza: devo capire da dove viene la voce che mi parla. “Dove sei?” chiedo alla voce nascosta, che ribatte: “Se vuoi entrare devi scendere, altrimenti puoi uscire da qui salendo le scale”. Ora riesco a percepire chiaramente che la voce viene da una delle due porticine: quella con le scale che scendono. La voce continua: “Se esci da qui, potrai continuare a cercare altrove la tua rotta, Le Miroir non ti verrà più a cercare. Se scendi troverai la rotta che cercavi, ma non sarà quella che credevi di trovare”. Non sono mai stato bravo a risolvere rompicapo e ad “indovinare” le risposte degli indovinelli, ed è proprio per questo motivo che mi affascinano. Così come mi affascina quella dolce voce nascosta, al cui mistero non riesco ad opporre resistenza. Prendo la porticina a sinistra, scendo i gradini, non più di una ventina, di una scala a spirale che mi conduce in un'ampia stanza illuminata da una decina di lampade, simili a quella dello stanzino al piano superiore, completamente priva di arredamento, fatta eccezione per un bancone stile reception d' albergo, sistemato al lato opposto alla scala.
Ormai le sorprese si succedono ad un ritmo talmente frenetico che non mi fa nemmeno impressione scoprire che da dietro il bancone, fonte della dolce voce seducente, ad attendermi c'è proprio lei: l'incredibilmente affascinante hostess, nonché capofila di “serpenti umani”, che avevo incontrato a Parigi, e che mi aveva consegnato l'indirizzo di Le Miroir. Credo ai miei occhi (e direi che mi conviene), e decido di trasmetterle i sensi della mia ammirazione nel modo che mi potrebbe valere il Premio Nobel per le gaffes: con un'aria che potrebbe ricordare Woody Allen quando imita Humphrey Bogart, mi avvicino al bancone, e di fronte al suo indescrivibile sorriso le porgo un mio: “Toh, chi si rivede... come mai da sola, oggi?”. La sua (non) risposta consiste nel contrarre leggermente i muscoli attorno alle labbra, segno evidente di chi non vuole che un sorriso di cordiale benvenuto si trasformi in una risata di scherno. La mia (non) controrisposta si estrinseca nel camaleontico mutare del colore del mio viso, diventato probabilmente di un colore più acceso dell'arancione delle lampade ad olio che illuminano quell'ameno luogo, mentre i miei occhi si affrettano a dirottare lo sguardo verso il basso. La mia interlocutrice lascia, molto saggiamente, lievitare in me il senso d'imbarazzo per qualche lungo istante. Il tempo necessario per farmi riprendere, dopo la sarabanda di gaffes nelle quali mi sono esibito quasi senza accorgermene, come fossero dettate da uno schema meccanico che mi impediva di rendermi ben conto della situazione nella quale mi trovavo. Il silenzio dilaga per altri lunghissimi istanti. Poi, quasi avesse letto dentro i miei pensieri con la facilità con la quale si leggono le istruzioni di montaggio di una lampadina, l'ammaliante hostess riprende il filo della conversazione: “Sei giunto fin qui quasi senza rendertene conto, infatti è solo così che puoi trovare un posto come questo. Non ti preoccupare per le figuracce che hai fatto: la tua mente cosciente è in agitazione per quello che sta per conoscere”.
Ascoltare qualcuno mentre legge i tuoi pensieri proprio nel momento in cui questi passano per la tua mente, può essere un'esperienza mistica. C'è un che di inquietante, invece, nel capire che chi ti sta leggendo i pensieri conosce anche quello che sta per succedere. Decido di farmi sentire: “Cos'è questo posto? Come fai a sapere quello che sto pensando? Chi sei tu?”.
Il suo sorriso si apre come la più bella rosa di maggio, con l'evidente intento di lasciarmi interdetto, mentre con le note più suadenti che abbia mai sentito pronunciare da voce umana, mi risponde “Non ti posso dire niente, per ora. Tranne che sei qui perchè vuoi trovare la tua rotta, e io te la farò scoprire. Ma per far questo dobbiamo andare nel Profondo. Devi seguirmi”.
Le vorrei spiegare che io la seguirei volentieri anche all'inferno, ma sicuramente lei lo avrà già letto nei miei pensieri, quindi non spreco fiato e fisso il mio sguardo sulle sue spalle, che lei mi ha rivolto per mostrarmi che dovrò star dietro a quelle, mentre lei mi accompagnerà giù per degli altri scalini, che stanno dietro una porta che io non avevo ancora notato essere a fianco del bancone della reception, unico arredamento della stanza dalla quale stavamo per uscire. I gradini che stiamo scendendo sono al buio, segno che sono parecchi. Per un attimo mi chiedo come possa esistere un luogo così complesso dentro un relitto di un'antica nave. Ma forse è l'ultimo contatto con la realtà così come l'avevo conosciuta fino a quel momento, perchè la voce di quella misteriosa affascinante creatura mi annuncia: “Ora basta con le domande inutili. Ora andiamo nel Profondo. Giù, nel Profondo”. Ovviamente io non capisco, ma la seguo. Capire le cose, a quanto pare, non è più un compito che mi riguarda. Non so cosa mi stia aspettando, né dove sono, né chi sia quella bellissima creatura che mi sta portando, ma so che devo andare giù, nel Profondo.

(fine quinto episodio)

Marco Bertelli

martedì 19 marzo 2013

Una Benedizione

Periodo pasquale, periodo di Benedizioni. Io adoro le Benedizioni. Personalmente sono convinto che la Benedizione sia un qualcosa di estremamente importante e Sacro. Non fa differenza chi sia a Benedire, con che rito lo faccia e in nome di quale Dio. La Benedizione, a mio modo di vedere, è sempre e comunque un'energia positiva che, come tale, è sempre giusto accettare e piuttosto triste respingere. E' qualcosa di religioso, che però va oltre i dogmi e gli ordinamenti che ogni religione organizzata impone ai propri fedeli. “Ti auguro il Bene, la Prosperità, la protezione Divina”, questo è il senso che qualsiasi religione, attualmente (non sempre è stato così), attribuisce alla Benedizione. Se un musulmano, un buddista o persino il rappresentante di una religione sconosciuta, si presentassero a casa mia per Benedire, io lo accoglierei con gioia, così come ho fatto, oggi pomeriggio, col parroco della religione cattolica che mi è toccata in sorte alla nascita. Sappiamo tutti che oggi la Chiesa, intesa come istituzione, è in pieno fermento. Aria nuova sta tirando dalle parti del Vaticano, e tutti aspettano con ansia i cambiamenti che il nuovo Papa Francesco vorrà mettere in pratica. Sembra una persona davvero speciale Papa Francesco, forse vuole davvero dare un senso nuovo alla religione cattolica e a quell'enorme “macchina spirituale” che la chiesa dovrebbe rappresentare. In uno dei suoi primi discorsi l'ho sentito parlare con molto trasporto di Perdono. Valore divino, ma anche umano, che dovrebbe essere tra le prime virtù che un cristiano (ma perchè non anche i non-cristiani?) fa propria e professa. Credo di essere in perfetto accordo col nuovo Papa. Così ho voluto agevolare il lavoro di Perdono che la chiesa cattolica ha intenzione di portare avanti.
Io e il “mio” parroco non ci conosciamo personalmente (non frequento luoghi di culto), ma sapevo (aveva recapitato a tutto il quartiere regolare volantino col programma delle Benedizioni) che oggi sarebbe passato da me per Benedire. Nel cercare di fare in modo di fargli trovare una casa da Benedire in ordine, ho dato una sistematina ai libri che di solito tengo sparsi in soggiorno, dove si doveva svolgere il rito. Casualmente :) , sul tavolino di fronte al divano, dove alcuni dei miei libri in genere si aggrappano per non cadere per terra, “si è posata” in cima a tutti gli altri una copia de “La Cabala del Cavallo Pegaseo” di Giordano Bruno, famoso “autore” del sedicesimo secolo, non sempre, diciamo così, compreso appieno dalla santa sede (è pasqua e c'è il Papa nuovo, lasciatemi usare degli eufemismi, perbacco).
E' suonato il campanello, ho aperto la porta ed ho fatto accomodare il prete. Il dialogo è stato più o meno questo (senza eufemismi):
“Buongiorno Padre, si accomodi. E' qua per Benedire la casa, vero?” il mio benvenuto.
“Direi che ce n'è di bisogno!” il suo ingresso.
Segue orazione del parroco, quasi meccanica. Poco comprensibile perchè pronunciata abbastanza velocemente (c'era tutto un quartiere da benedire, infondo). L'aspersorio e lo sguardo verso l'alto, l'acqua benedetta che si asperge verso il basso. “Amen”, pronunciato da entrambi i presenti al rito.
Ai sacerdoti è conferita l'autorità di Benedire, e la facoltà (opzionale) di controllare dove si vanno ad infrangere le gocce di acqua Benedetta. Il parroco, incuriosito non so da che cosa, ha voluto avvalersi di questa facoltà. Senza chiedere il permesso (comunque glielo avrei accordato con gioia) prende nella mano senza aspersorio il libro col bel viso fiero di Giordano Bruno, la copertina umida.
“... ma questo lo conosco... un bell'elemento.... un domenicano se non mi sbaglio...” gli occhi in preda allo sconcerto di un prete che ha appena dato acqua ad un rogo non ancora spento.
“Se permette, Padre, le farei una piccola offerta, se l'accetta” mentre estraggo una banconota da cinque euro dal portafoglio, indubbiamente modesta dato l'evento.
“Ma certo, Grazie!!!” Intasca il parroco. “Perbacco, tu leggi molto!!!", dice il sacerdote uscendo.
“Grazie per la Benedizione, Padre!!!” saluto mentre si chiude la porta.

La chiesa sta davvero cambiando. Lunga vita a Papa Francesco!!!


Marco Bertelli


venerdì 8 marzo 2013

L'uomo e la Luna

Da tempo l'uomo aveva perso il sonno. Durante la frenesia del giorno sentiva sgretolarsi dentro l'Amore, la Bellezza, la Forza e la Gioia di vivere. La notte, nella sua solitudine, i suoi amati sogni che oramai si erano realizzati e che gli avevano donato tutto quello che credeva di desiderare, non lo venivano più a trovare.
Lo visitavano invece dei pensieri cupi che facevano a botte fra loro, impunemente, nella sua testa.
Il pensiero dell'insoddisfazione si avvinghiava al senso di colpa e lo trascinava al suolo in una lotta incessante, nella quale nessuno dei due aveva la meglio sull'altro ma entrambi trionfavano sulla sua pace.
Quella sera, esasperato, decise di uscire e di farsi trascinare dalla notte, mettendosi nelle sue buie mani.
Vagò senza chiedersi quale fosse la meta, camminando per chilometri e chilometri fuori dalla città. Si addentrò in una foresta, fitta di voci notturne che non aveva mai conosciuto, e di alberi che a malapena lasciavano intravedere un magnifico cielo stellato, nel quale si stagliava il corpo celeste più vicino e luminoso: la Luna.
Fu a causa di un distratto, quasi casuale sguardo verso l'alto che l'uomo si accorse di lei. La sua bianca luce e la sua forma così perfetta rapirono la sua attenzione. Si fermò a guardarla e subito fu preso dallo strano desiderio di avvicinarsi per vederla nella sua completezza.
Quasi per incanto si materializzò davanti ai suoi occhi una collina, su cui cominciò a salire.
Ad ogni passo verso l'alto la Luna gli appariva sempre più grande e luminosa, mentre gli alberi pian piano scomparivano sotto di lui, facendosi più piccoli. Giunto che fu in cima, la Luna era grandissima, tanto da coprire quasi tutta la volta celeste, e la sua luce era bellissima, tanto da togliere il fiato.
Era così vicina e vera che, quasi istintivamente, allungò la mano per toccarla, e la toccò.
All'istante l'uomo si sentì pervaso da un grandissimo senso di pace e da una gioia che mai avrebbe immaginato si potessero provare. “Ecco cosa cercavo, ecco cosa mi era sempre mancato” pensò l'uomo, “ecco cosa debbo possedere per essere felice”.
“Come posso fare per portarti via e tenerti sempre vicino a me?” Domandò gridando l'uomo, credendo di parlare al nulla e non aspettandosi nessuna risposta.
La risposta però arrivò subito: era una risata, che la Luna gli rimandò, divertita da quella sua disperata e assurda domanda. L'uomo, sorpreso e quasi impaurito, ritrasse la mano, e mentre la sua risata continuava, la Luna divenne piccolissima e lontana, confondendosi in un cielo tempestato di altre lontanissime stelle.
“Riesci ancora a vedermi adesso?” disse la Luna ironicamente e con un tono di sfida, “Sapresti riconoscermi tra tutte queste stelle?”.
Dopo aver fallito qualche goffo tentativo, indicando col dito l'astro sbagliato, l'uomo, deluso e indispettito, cercando di mascherare la propria frustrazione, gridò alla Luna: “Che senso ha tutto questo? Ti diverti così tanto a farmi sentire stupido? Io volevo solo darti il mio amore, e tu mi tratti con cattiveria”.
Allora la Luna si rimise a ridere di gusto, riapparve grandissima, luminosissima e vicinissima, così com'era qualche attimo prima, e rispose all'uomo: “Caro il mio bell'uomo, tutto questo ha senso, eccome. Per prima cosa io non sono stata affatto cattiva, ti ho solo dimostrato che tu non sei affatto sincero, perchè non è me che ami, ma l'ideale che tu hai di me, che è qualcosa che non mi riguarda; io sono un'altra cosa. E poi tu non mi ami affatto, perchè altrimenti mi avresti riconosciuto tra gli altri milioni di stelle. Ma preso com'eri dal desiderio di possedere me, non hai nemmeno pensato che anche un'altra stella qualsiasi del firmamento avrebbe potuto corrispondere al tuo ideale. Se tu credi di poter possedere, non potrai mai essere capace di amare. Del resto, se ci pensi bene, cos'è che ti ha spinto a venire quassù, se non il desiderio di possedere ciò che non avevi mai posseduto? E infine, se io mi fossi concessa a te, quanto tempo sarebbe passato prima che un nuovo desiderio di possesso ti facesse passare altre notti insonni?”
L'uomo si sentì cadere per terra, abbattuto dalle percosse che le parole della Luna gli avevano inferto. La Luna era davanti a lui, grandissima, luminosissima, bellissima, così come gli era apparsa la prima volta, ma ora non osava nemmeno sfiorarla con la mano che prima l'aveva toccata, procurandogli quella magnifica sensazione. Non aveva più parole, né pensieri ai quali attaccarsi per sentirsi meglio. La Luna lo guardò teneramente e si fece compassionevole. Prima di tornare a confondersi tra le altre stelle disse: “Io sarò sempre vicino a te, se mi saprai scegliere e se non desidererai mai di possedermi”.
L'uomo la guardò scomparire, rassegnato. Si coricò sull'erba della collina e aspettò l'alba senza pensare a niente. Mentre il Sole stava sorgendo il suo sguardo era ancora rivolto al cielo, e notò che mentre la luce del giorno si faceva sempre più forte, le stelle, anzichè dissolversi, sembravano cadere per terra.
Quando fece per alzarsi e prendere la strada del ritorno, si accorse che la foresta che aveva attraversato la notte prima, era sparita. Al suo posto c'era un'enorme distesa di fiori gialli. Avvicinandosi, vide che la foresta era diventata un immenso campo di mimose. Tantissime, almeno tante quante le Stelle che gli sembravano cadute dal cielo. L'uomo sorrise. Forse si sentiva Felice.
Era l'alba dell'otto marzo di un anno qualsiasi nella storia dell'umanità.

Marco Bertelli

mercoledì 6 marzo 2013

Le Miroir (Lo specchio) - 4^ episodio: sorprese

(riprende dal 3^ episodio)

Un altro viaggio in treno, stavolta per una destinazione a me nuova. In questa cittadina che si affaccia sullo Stretto della Manica, io non ero mai stato prima d'ora. Scendo alla stazione con l'animo di colui che capita in un posto per caso, un luogo che non aveva preventivato di visitare, anche perchè non è meta di turismo. I turisti ci sono, in effetti, ma qui ci passano e basta. Arrivano a Boulogne sur Mer per imbarcarsi su di un traghetto che li porti dall'altra parte della Manica con una rotta ben definita e certa. Io, invece, la rotta la devo trovare. I turisti sono in possesso di un biglietto dove la rotta è già scritta, io sono in possesso di un volantino pubblicitario in cui “la rotta” è solo promessa. Una promessa sottintende quasi sempre delle incognite, e le incognite a volte presagiscono sorprese. E qui, a Boulogne sur Mer, le sorprese a quanto pare non si fanno attendere.
Che cosa si aspetterebbe qualcuno che si trova in un luogo a lui sconosciuto e che cerca un posto specifico, munito di un indirizzo preciso? Che l'indirizzo esista, come minimo. Accade ovunque, in qualsiasi agglomerato urbano del pianeta. Tranne qui, a Boulogne sur Mer.
C'è un inghippo, e nemmeno tanto piccolo: tutte le persone a cui chiedo informazioni per raggiungere la mia destinazione, quella pubblicizzata nel volantino che mi si era spiaccicato in faccia a Parigi, conoscono il locale. “Le Miroir” è conosciutissimo qui a Boulogne, ma la cosa strana è che tutte le persone a cui chiedo lumi per raggiungerlo si mettono a ridere e rispondono che non esiste l'indirizzo; e lo dicono come se la loro risposta fosse la più ovvia, la più scontata del mondo. Beffardo è il loro atteggiamento quando, con la massima gentilezza che riesco ad esprimere in quel momento, domando di spiegarmi dove accidenti devo andare per entrare a “Le Miroir”: se ne vanno ridendosela di gusto, come si farebbe con uno sciroccato che chiede le coordinate astrali per raggiungere un'altra galassia.
La cosa più ovvia che può venire alla mente, in casi simili, è che si sia caduti vittima di uno scherzo, una specie di trappola dispettosa e senza costrutto, organizzata da qualche buontempone. Anche questo può accadere in qualsiasi agglomerato urbano del pianeta. Certamente non accade qui, a Boulogne sur Mer, dove molte sorprese pare abbiano scelto di darsi convegno e di sbizzarrire la loro vèrve creativa su “turisti per caso”, per di più naufraghi, come me. Una di queste mi viene a scovare proprio quando ho ormai abbandonato le ricerche di “Le Miroir”, e si manifesta, come è tipico delle sorprese, in modi e tempi inaspettati.
Approfittando della bella giornata di sole che la primavera sembra aver accordato anche a questa strana città, mi incammino verso il lungomare. La strada che costeggia lo stretto della Manica in questa zona è poco frequentata. E' un boulevard molto lungo; da un lato la strada, sopraelevata rispetto al mare, che dista un centinaio di metri separato dalla spiaggia, alla quale si accede tramite delle scalinate piuttosto strette che, percorrendo il largo marciapiede del viale, si incontrano ogni cento metri circa. In prossimità di ogni scalinata c'è una panchina, ognuna delle quali è contrassegnata da un numero. Di fronte ad ogni panchina c'è una statua di un personaggio famoso. Così, ad esempio, di fronte alla panchina n.1 c'è la statua di Napoleone, alla n.2 c'è De Gaulle, alla n.3 c'è Luigi XIV, eccetera.
Quando decido di sedermi per riposarmi e prendere un po' del sole di primavera sul viso, ho appena passato la panchina n.18 col bel faccione di Flaubert che stava di fronte, e che guardava perplesso una coppia di gabbiani innamorati che vi si era appollaiata sopra. Per non disturbare l'intimità dei volatili e non turbare ulteriormente Flaubert, mi siedo dunque sulla panchina n.19, in petto alla quale si staglia imperiosa la statua di lui: Cristophe Colombo. Non stavo ormai neanche più pensando a quello che ero venuto a fare a Boulogne, ma l'associazione 19+Colombo è scattata immediata nella mia mente. Prendo dalla tasca il volantino di “Le Miroir”, l'indirizzo dice: 19, boulevard Cristophe Colombo. Ma in questo boulevard, che non si chiama Colombo, non vedo nessun locale; ci sono solo automobili che sfrecciano sulla strada e dei giardinetti pubblici dall'altra parte. Mi avvicino incuriosito alla statua, su cui leggo un'iscrizione che recita: “qui, nel 1484, Cristophe Colombo naufragò. Riuscì a salvarsi a bordo di una scialuppa che attraccò al molo 26”. Mi rendo conto che è l'iscrizione più assurda che mai fu apposta su una statua commemorativa, non fosse altro che è scritta in italiano e che qui siamo in Francia, ma è anche la stessa cosa di cui parla il volantino di “Le Miroir”. Lo stupore e il disorientamento corrono a briglie sciolte nella mente per qualche istante. Poi, istintivamente, mi giro verso la scalinata, dove ad attendermi c'è l'ennesima sorpresa: appoggiato al primo gradino vedo un oggetto che sembra essere stato abbandonato lì per sbaglio: è un piccolo specchio. Ma non è uno specchio qualsiasi: è esattamente uguale a quello del volantino. L'indizio è chiaro: “Le Miroir” è qui, basta scendere la scalinata. Ce l'ho fatta; quando ormai non ci pensavo più, l'ho trovato. O forse sarebbe più corretto dire che è stato “Le Miroir” a trovare me. Mentre il cervello mastica svogliatamente questo amletico dubbio, ne approfitto per scendere la scalinata e vedere, prima di cantar vittoria, se davvero “Le Miroir” è qui, dal momento che le sorprese in questo posto sono all'ordine non del giorno, ma del minuto.
Scesi tutti i gradini mi trovo in spiaggia. Deserta. Costruzioni che possono somigliare a locali pubblici: zero. Davanti a me il mare, dietro di me il muro di cemento sottostante al boulevard. L'unico oggetto presente in spiaggia è il relitto di quella che sembra essere un'antica nave, il cui legno si presenta piuttosto male in arnese. Mi avvicino, con l'intento di trovare l'ennesima sorpresa, che credo a questo punto non mi possa essere negata. Infatti la trovo. Sulla chiglia ormai semidistrutta si legge a malapena una scritta in vernice ormai sbiadita: “Le Miroir”. La barca è grande, posso entrarci dalle falle che ne squarciano l'antico legno. Sono in quello che è rimasto della stiva. Di fronte a me c'è una porta. Tiro la maniglia, entro. Dal buio una dolce voce femminile mi saluta: “Ben arrivato a Le Miroir!!!”

(Fine quarto episodio)

Marco Bertelli

domenica 24 febbraio 2013

Circus

Il bimbo teneva per mano il padre. Insieme camminavano per l'immenso Luna park ai limiti della città. Era la sua festa, e il suo babbo gli aveva promesso che quel pomeriggio avrebbe accondisceso ad ogni suo desiderio. Così il bimbo si era già fatto un paio di giri in giostra ed aveva già consumato la sua frittella dolce ed un bel cono gelato. Il pomeriggio era ancora lungo. Aveva in mente di comprarsi un palloncino rosso e si stava dirigendo verso il suo prossimo sfizio, quando la sua attenzione fu accalappiata da un curioso signore che vestiva un buffissimo frac di un paio di taglie superiori alla sua tozza corporatura, che davanti ad un grande tendone azzurro strillava allegramente e con assai poco colto lessico, di fronte ad un capannello di persone che là si erano radunati incuriositi. “Venghino, venghino Siore e Siori!!! Entrate a vedere le nostre spetacolari attrassioni!!! Abbiamo Fenomeni da tutto il mondo: Donne cannone contorsioniste, nani trapesisti che raccontano barzelette mentre volteggiano nel'aria, e gli incredibili uomini verdi!!! Ebbene si, Siori!!! Gli autentici uomini verdi che nessuno al mondo aveva mai visto, ce li abbiamo noi!!! Venite, entrate!!!”. Ora, di donne cannone e di acrobati comici di bassa statura se n'erano visti parecchi nei Luna Park, e non erano certo una novità molto attraente, giusto la curiosità di vederli per una volta poteva convincere qualcuno ad entrare nel tendone azzurro, ma gli uomini verdi, beh, quelli erano proprio una novità assoluta. La folla davanti al tendone azzurro aumentava sempre più, per tutto il Luna Park si stava spargendo la voce di questa nuova attrazione, e il bimbo aveva dimenticato il palloncino che voleva comprare; ora voleva vedere questi misteriosi uomini verdi. Il babbo non poteva dire di no, avrebbe contravvenuto alla sua promessa e deluso il figlio, ma l'idea di entrare in quel tendone non lo convinceva per niente, aveva come la sensazione che ci fosse qualcosa di poco edificante nel portare il bimbo a vedere quei fenomeni da baraccone, ma per poter accontentare il figlio si sforzò di soffocare quel suo istinto. Quella sensazione strana salì di intensità non appena entrarono nell'ampio tendone, quando si accorse che il pubblico era composto esclusivamente da padri come lui che erano tenuti per mano da figlioletti come il suo. Non seppe spiegarsi il perchè, ma vide che la stessa inquietudine che egli provava era stampata tale e quale sui visi degli altri papà, imbarazzati come lui, e come lui incapaci di condividere l'entusiasmo che pervadeva i bimbi, impazienti, al contrario dei rispettivi padri, di vedere lo spettacolo. E lo spettacolo cominciò.
Il primo numero non ebbe grande successo tra i bimbi, si trattava della donna cannone contorsionista, una bella ragazza indubbiamente, vestita in abiti succinti che fumava una strana sigaretta mentre danzava sinuosamente al ritmo di una musica orientaleggiante, al termine della quale si faceva chiudere dentro una valigia per poi farsi trasportare fuori dal suo assistente, che somigliava tantissimo allo strillone in frac davanti al tendone. I bimbi rimasero quasi impassibili, non comprendendo forse lo “spirito” dell'esibizione, mentre i padri, sempre più nervosi, si guardavano tra loro accennando un mezzo sorriso d'intesa, che però tradiva un evidente imbarazzo.
Il secondo numero, invece, fu un successo. Il nano trapezista, stranamente somigliante allo strillone in frac davanti al tendone, saliva su per una relativamente alta impalcatura e afferrato un trapezio cominciava a dondolarsi, a fare salti mortali e piroette. Spesso, quando lasciava il trapezio, nel tentativo di riafferrarlo, mancava la presa e precipitava nella rete sottostante, che lo faceva rimbalzare e lo restituiva al pubblico bello, sano, integro e sorridente, e lui, prima di arrampicarsi di nuovo sull'impalcatura, raccontava una barzelletta, tanto per far dimenticare la figuraccia. I bambini sembrava impazzissero dalle risate, non certo per la comicità (assai difficile da cogliere) delle battute di quell'attempato nanetto, ma più che altro per i buffi ruzzoloni che questi faceva nella rete ogniqualvolta ci cascava.
Il nervosismo, invece, si faceva sempre più tangibile tra i papà, i quali, per riuscire a rendere credibili le loro finte risate, facevano grossi sforzi di petto, cercando complicità nello sguardo degli altri colleghi genitori.
Ma ormai era giunto il momento della grande attrazione. Il sipario rimase chiuso per qualche lungo istante, mentre dietro si preparava il palcoscenico. Qualcuno riusciva a scorgere dietro la tenda rossa che qualcuno, pare fosse lo strillone in frac che stava davanti al tendone, ripuliva lo scenario dalle impalcature servite per il numero precedente. All'improvviso, senza squilli di trombe o presentazioni introduttive, si aprì il sipario. Di fronte al pubblico si parò un gruppo di una decina di personaggi completamente verdi, dalla testa ai piedi. Verdi non erano solo i loro vestiti, ma anche la loro pelle, i loro capelli, le loro unghie, persino gli occhiali che alcuni di loro indossavano erano verdi, sia nella montatura che nelle lenti. L'unico sul palco che non era verde era un maialino rosa che era tenuto al guinzaglio (verde anche quello) da uno degli ometti verdi che, con un sorriso leggermente ebete, reggeva un cartello, scritto ovviamente in verde, che recava una misteriosa frase di cui a malapena si leggeva il contenuto, una sorta di minaccia sconnessa nei confronti di una religione straniera. Gli uomini verdi erano sul palco fermi, muti e con lo sguardo perso nel vuoto. Muti erano anche gli spettatori, che ancora non capivano bene in cosa consistesse lo spettacolo al quale stavano assistendo. All'improvviso da dietro il palco si levò una musica. Era una famosa aria tratta da un'opera lirica, il cui autore non poteva che chiamarsi Verdi. Ed ecco che, quasi automaticamente, gli uomini verdi sul palco si animarono e presero a muoversi in maniera scoordinata, nel goffo tentativo di accompagnare i loro gesti con la musica in sottofondo. In particolare ce n'era uno, che doveva essere il loro capo, che si mise ad emettere strani suoni gutturali che volevano essere frasi compiute, ma che, forse a causa del sigaro (verde) che stranamente teneva spento in bocca, risultavano a tutti incomprensibili. Si capivano a malapena solo le ultime sillabe: “... uro!!!”, “... dània!!!”, “...drona!!!”. Quello che era ben comprensibile, invece, era il gesto che faceva con la mano: era il classico dito medio che agitava davanti al pubblico, e che suscitava l'eccitazione di tutti gli uomini verdi assieme a lui sul palco. Il numero si trascinava tra le risate dei bimbi e la crescente e strana inquietudine dei padri, ma ad un certo punto ci fu il colpo di scena. Fece irruzione sul palco uno strano ometto che indossava un mantello nero. L'ometto reggeva un grosso secchio colmo d'acqua, e si parò davanti agli uomini verdi. Giusto un attimo prima di gettare l'acqua del secchio addosso a loro, l'ometto col mantello si rivolse con un ghigno beffardo ed una risatina sadica verso il pubblico e tutti poterono riconoscerlo, si trattava dello strillone che stava davanti al tendone. L'acqua si riversò come un'enorme onda marina sugli uomini verdi, che si bloccarono all'istante, mentre la fredda acqua sferzava i loro corpi. Solo il maialino rosa riuscì a sottrarsi, svelto, all'ondata gelata, liberandosi dal guinzaglio e scappando dal palcoscenico. E fu a questo punto che accadde l'incredibile. L'acqua che colava dai visi degli uomini verdi trasportava con se' anche il colore che essi spacciavano per quello naturale dei loro volti, rivelando la normalità della loro natura umana. I bimbi presero a ridere a crepapelle nel vedere le facce degli ormai ex uomini verdi con un'espressione di sconsolato stupore dipinta addosso, ma lo spettacolo non era ancora finito. Non appena i bimbi ebbero finito di asciugarsi le lacrime che le grasse irrefrenabili risate avevano fatto sgorgare dai loro occhi, si accorsero che c'era qualcosa di strano e di nuovo nella facce degli uomini (non più) verdi. I loro visi erano esattamente quelli dei loro padri. Per un attimo credettero di sognare. Poi, tanto per rendersi ben conto se lo spettacolo davanti ai loro occhi fosse davvero reale, guardarono in faccia i loro padri e videro che erano sempre gli stessi, solo con quella stessa espressione di sconsolato stupore di quelli del palco dipinta sui loro visi, diventati di un colore verde-rabbia. Intanto l'ambiente si era fatto improvvisamente irreale; mentre gli uomini non più verdi sul palco restavano immobili e muti, simili a statue di sale, i padri guardavano i figli con gli occhi di qualcuno che cercava compassione e perdono. I bimbi non capirono di cosa avrebbero dovuto ritenere colpevoli i padri, capirono solo che lo spettacolo era finito. Ciascuno di loro trascinò fuori il padre consolandolo: “Va bene, non importa, se non ti piace questo posto non ti ci porterò più”. Uscirono in silenzio dalla parte opposta da dov'erano entrati. Una volta in strada, però, non poterono fare a meno di sentire la voce dello strillone davanti al tendone: “Venghino, venghino Siore e Siori!!! Più gente entra e più bestie si vedono!!!”

P.S.: il presente articolo era stato da me scritto circa un anno fa, per il sito Ereticamente.it, in occasione dello scandalo che coinvolse la lega nord. Oggi si va alle urne per eleggere il nuovo parlamento e il nuovo presidente del consiglio. Ho pensato che questa storia andasse benissimo per descrivere la situazione politica generale attuale. Gli "uomini verdi", in fondo, non sono soltanto quelli della lega.... o no?


Marco Bertelli