domenica 24 febbraio 2013

Circus

Il bimbo teneva per mano il padre. Insieme camminavano per l'immenso Luna park ai limiti della città. Era la sua festa, e il suo babbo gli aveva promesso che quel pomeriggio avrebbe accondisceso ad ogni suo desiderio. Così il bimbo si era già fatto un paio di giri in giostra ed aveva già consumato la sua frittella dolce ed un bel cono gelato. Il pomeriggio era ancora lungo. Aveva in mente di comprarsi un palloncino rosso e si stava dirigendo verso il suo prossimo sfizio, quando la sua attenzione fu accalappiata da un curioso signore che vestiva un buffissimo frac di un paio di taglie superiori alla sua tozza corporatura, che davanti ad un grande tendone azzurro strillava allegramente e con assai poco colto lessico, di fronte ad un capannello di persone che là si erano radunati incuriositi. “Venghino, venghino Siore e Siori!!! Entrate a vedere le nostre spetacolari attrassioni!!! Abbiamo Fenomeni da tutto il mondo: Donne cannone contorsioniste, nani trapesisti che raccontano barzelette mentre volteggiano nel'aria, e gli incredibili uomini verdi!!! Ebbene si, Siori!!! Gli autentici uomini verdi che nessuno al mondo aveva mai visto, ce li abbiamo noi!!! Venite, entrate!!!”. Ora, di donne cannone e di acrobati comici di bassa statura se n'erano visti parecchi nei Luna Park, e non erano certo una novità molto attraente, giusto la curiosità di vederli per una volta poteva convincere qualcuno ad entrare nel tendone azzurro, ma gli uomini verdi, beh, quelli erano proprio una novità assoluta. La folla davanti al tendone azzurro aumentava sempre più, per tutto il Luna Park si stava spargendo la voce di questa nuova attrazione, e il bimbo aveva dimenticato il palloncino che voleva comprare; ora voleva vedere questi misteriosi uomini verdi. Il babbo non poteva dire di no, avrebbe contravvenuto alla sua promessa e deluso il figlio, ma l'idea di entrare in quel tendone non lo convinceva per niente, aveva come la sensazione che ci fosse qualcosa di poco edificante nel portare il bimbo a vedere quei fenomeni da baraccone, ma per poter accontentare il figlio si sforzò di soffocare quel suo istinto. Quella sensazione strana salì di intensità non appena entrarono nell'ampio tendone, quando si accorse che il pubblico era composto esclusivamente da padri come lui che erano tenuti per mano da figlioletti come il suo. Non seppe spiegarsi il perchè, ma vide che la stessa inquietudine che egli provava era stampata tale e quale sui visi degli altri papà, imbarazzati come lui, e come lui incapaci di condividere l'entusiasmo che pervadeva i bimbi, impazienti, al contrario dei rispettivi padri, di vedere lo spettacolo. E lo spettacolo cominciò.
Il primo numero non ebbe grande successo tra i bimbi, si trattava della donna cannone contorsionista, una bella ragazza indubbiamente, vestita in abiti succinti che fumava una strana sigaretta mentre danzava sinuosamente al ritmo di una musica orientaleggiante, al termine della quale si faceva chiudere dentro una valigia per poi farsi trasportare fuori dal suo assistente, che somigliava tantissimo allo strillone in frac davanti al tendone. I bimbi rimasero quasi impassibili, non comprendendo forse lo “spirito” dell'esibizione, mentre i padri, sempre più nervosi, si guardavano tra loro accennando un mezzo sorriso d'intesa, che però tradiva un evidente imbarazzo.
Il secondo numero, invece, fu un successo. Il nano trapezista, stranamente somigliante allo strillone in frac davanti al tendone, saliva su per una relativamente alta impalcatura e afferrato un trapezio cominciava a dondolarsi, a fare salti mortali e piroette. Spesso, quando lasciava il trapezio, nel tentativo di riafferrarlo, mancava la presa e precipitava nella rete sottostante, che lo faceva rimbalzare e lo restituiva al pubblico bello, sano, integro e sorridente, e lui, prima di arrampicarsi di nuovo sull'impalcatura, raccontava una barzelletta, tanto per far dimenticare la figuraccia. I bambini sembrava impazzissero dalle risate, non certo per la comicità (assai difficile da cogliere) delle battute di quell'attempato nanetto, ma più che altro per i buffi ruzzoloni che questi faceva nella rete ogniqualvolta ci cascava.
Il nervosismo, invece, si faceva sempre più tangibile tra i papà, i quali, per riuscire a rendere credibili le loro finte risate, facevano grossi sforzi di petto, cercando complicità nello sguardo degli altri colleghi genitori.
Ma ormai era giunto il momento della grande attrazione. Il sipario rimase chiuso per qualche lungo istante, mentre dietro si preparava il palcoscenico. Qualcuno riusciva a scorgere dietro la tenda rossa che qualcuno, pare fosse lo strillone in frac che stava davanti al tendone, ripuliva lo scenario dalle impalcature servite per il numero precedente. All'improvviso, senza squilli di trombe o presentazioni introduttive, si aprì il sipario. Di fronte al pubblico si parò un gruppo di una decina di personaggi completamente verdi, dalla testa ai piedi. Verdi non erano solo i loro vestiti, ma anche la loro pelle, i loro capelli, le loro unghie, persino gli occhiali che alcuni di loro indossavano erano verdi, sia nella montatura che nelle lenti. L'unico sul palco che non era verde era un maialino rosa che era tenuto al guinzaglio (verde anche quello) da uno degli ometti verdi che, con un sorriso leggermente ebete, reggeva un cartello, scritto ovviamente in verde, che recava una misteriosa frase di cui a malapena si leggeva il contenuto, una sorta di minaccia sconnessa nei confronti di una religione straniera. Gli uomini verdi erano sul palco fermi, muti e con lo sguardo perso nel vuoto. Muti erano anche gli spettatori, che ancora non capivano bene in cosa consistesse lo spettacolo al quale stavano assistendo. All'improvviso da dietro il palco si levò una musica. Era una famosa aria tratta da un'opera lirica, il cui autore non poteva che chiamarsi Verdi. Ed ecco che, quasi automaticamente, gli uomini verdi sul palco si animarono e presero a muoversi in maniera scoordinata, nel goffo tentativo di accompagnare i loro gesti con la musica in sottofondo. In particolare ce n'era uno, che doveva essere il loro capo, che si mise ad emettere strani suoni gutturali che volevano essere frasi compiute, ma che, forse a causa del sigaro (verde) che stranamente teneva spento in bocca, risultavano a tutti incomprensibili. Si capivano a malapena solo le ultime sillabe: “... uro!!!”, “... dània!!!”, “...drona!!!”. Quello che era ben comprensibile, invece, era il gesto che faceva con la mano: era il classico dito medio che agitava davanti al pubblico, e che suscitava l'eccitazione di tutti gli uomini verdi assieme a lui sul palco. Il numero si trascinava tra le risate dei bimbi e la crescente e strana inquietudine dei padri, ma ad un certo punto ci fu il colpo di scena. Fece irruzione sul palco uno strano ometto che indossava un mantello nero. L'ometto reggeva un grosso secchio colmo d'acqua, e si parò davanti agli uomini verdi. Giusto un attimo prima di gettare l'acqua del secchio addosso a loro, l'ometto col mantello si rivolse con un ghigno beffardo ed una risatina sadica verso il pubblico e tutti poterono riconoscerlo, si trattava dello strillone che stava davanti al tendone. L'acqua si riversò come un'enorme onda marina sugli uomini verdi, che si bloccarono all'istante, mentre la fredda acqua sferzava i loro corpi. Solo il maialino rosa riuscì a sottrarsi, svelto, all'ondata gelata, liberandosi dal guinzaglio e scappando dal palcoscenico. E fu a questo punto che accadde l'incredibile. L'acqua che colava dai visi degli uomini verdi trasportava con se' anche il colore che essi spacciavano per quello naturale dei loro volti, rivelando la normalità della loro natura umana. I bimbi presero a ridere a crepapelle nel vedere le facce degli ormai ex uomini verdi con un'espressione di sconsolato stupore dipinta addosso, ma lo spettacolo non era ancora finito. Non appena i bimbi ebbero finito di asciugarsi le lacrime che le grasse irrefrenabili risate avevano fatto sgorgare dai loro occhi, si accorsero che c'era qualcosa di strano e di nuovo nella facce degli uomini (non più) verdi. I loro visi erano esattamente quelli dei loro padri. Per un attimo credettero di sognare. Poi, tanto per rendersi ben conto se lo spettacolo davanti ai loro occhi fosse davvero reale, guardarono in faccia i loro padri e videro che erano sempre gli stessi, solo con quella stessa espressione di sconsolato stupore di quelli del palco dipinta sui loro visi, diventati di un colore verde-rabbia. Intanto l'ambiente si era fatto improvvisamente irreale; mentre gli uomini non più verdi sul palco restavano immobili e muti, simili a statue di sale, i padri guardavano i figli con gli occhi di qualcuno che cercava compassione e perdono. I bimbi non capirono di cosa avrebbero dovuto ritenere colpevoli i padri, capirono solo che lo spettacolo era finito. Ciascuno di loro trascinò fuori il padre consolandolo: “Va bene, non importa, se non ti piace questo posto non ti ci porterò più”. Uscirono in silenzio dalla parte opposta da dov'erano entrati. Una volta in strada, però, non poterono fare a meno di sentire la voce dello strillone davanti al tendone: “Venghino, venghino Siore e Siori!!! Più gente entra e più bestie si vedono!!!”

P.S.: il presente articolo era stato da me scritto circa un anno fa, per il sito Ereticamente.it, in occasione dello scandalo che coinvolse la lega nord. Oggi si va alle urne per eleggere il nuovo parlamento e il nuovo presidente del consiglio. Ho pensato che questa storia andasse benissimo per descrivere la situazione politica generale attuale. Gli "uomini verdi", in fondo, non sono soltanto quelli della lega.... o no?


Marco Bertelli

mercoledì 20 febbraio 2013

Le Miroir (Lo specchio) - 3^ episodio: sogno o realtà?

(riprende dal 2^ episodio)

Catapultarsi da Milano a Parigi è un po' come assistere a una partita a dadi tra il sogno e la realtà. Scendendo da un treno notturno questa sensazione sembra più reale che mai. Ti addormenti con impressi nella tua mente i ritmi e le immagini di una città che, in fondo, ti è familiare; quando ti svegli, invece, ciò che vedi è qualcosa di insolito. La lingua diversa non è l'unico segno distintivo di un posto “straniero”. L'architettura delle case, la gestualità delle persone, sono tutte cose che ti spiegano che lo scenario che ti circonda è cambiato. Persino l'aria che respiri sembra abbia un altro peso, un altro aroma. Non è così scontato pensare che oggi, come ogni altro giorno, ti sei svegliato. Non è follia credere che ciò che vedi intorno a te sia un sogno iniziato dentro un vagone-letto, e non ancora svanito. Il dilemma sogno/realtà non accenna a risolversi, mentre comincio ad avventurarmi nella grande “Ville Lumière”, salendo e scendendo dalla sua superficie e dai convogli della ragnatela del Métro. Esistono almeno due città diverse dentro Parigi: quella di superficie, dove vengono scattate le foto che rappresentano la sua immagine elegante, da mostrare al mondo intero, il quale, dopo averle attentamente esaminate, le rimanderà la sua ammirazione sotto forma di incessanti flotte di turisti che si impossesseranno di quella mirabile superficie. Poi esiste la città sotto la superficie, dove vengono a contatto i suddetti turisti con gli abitanti veri di Parigi, che raramente sono reperibili in superficie se non in veste di commesse di negozio, di impiegato di agenzia viaggi, di museo o altra attività che comporti un rapporto con le flotte turistiche. I parigini vivono con un certo distacco la loro “pariginità”, sembrano alieni alle attrattive ed alle bellezze del patrimonio culturale che sfreccia sopra le loro teste, i loro occhi sembrano trattare i turisti come suppellettili che non danno sufficiente risalto ad un salotto di vecchio stile, ma comunque ancora alla moda. Non sembrano tristi, né rassegnati a convivere con potenziali invasori che, per numero e peso economico, potrebbero fregiarsi al loro pari del titolo di “parigini”, ma fanno chiaramente trasparire dai loro atteggiamenti distaccati, a tratti affascinanti e a volte un po' altezzosi, che la Parigi di cui sono in cerca i turisti, nulla ha a che fare con la Parigi di cui loro si sentono interpreti. Nei labirintici meandri del sottosuolo, solcato da convogli senza tempo, la realtà della Parigi “autentica” si confronta col sogno della Parigi “turistica”, e contemporaneamente il sogno dei parigini “autentici” sfida la realtà monumentale della Parigi “turistica”. Un naufrago, quale io sono, non appartiene né al sogno né alla realtà che turisti e parigini si contendono; ma io devo scegliere la mia realtà per trovare la rotta che forse ho solo sognato in quel bar di provincia, che ora mi sembra più lontano che mai. Anche la realtà davanti ai miei occhi sembra sempre più lontana, inafferrabile, indecifrabile. Questa commistione di sogno e realtà offusca in me il senso del tempo e delle cose. O forse è questo mezzo di trasporto sotterraneo che ha trascinato sotto il livello della superficie, assieme a me, anche il mio animo. Disorientato tra sogno e realtà, stento a trovare l'istinto che avevo seguito all'inizio del mio viaggio. Devo assolutamente risalire in superficie. Perso tra questi pensieri di sconforto, non mi sono accorto che il vagone del métro è stato abbandonato dai turisti, e si sta dirigendo in una zona periferica. Una signora, seduta di fronte a me, deve aver notato le vicissitudini pensatorie del naufrago suo occasionale dirimpettaio. Mi guarda con un mezzo sorriso, tra il divertito e il compassionevole. Forse pensa che, assopito nei miei pensieri, abbia dimenticato di scendere qualche fermata prima. Però è insolito che qualcuno noti le mie evoluzioni cervellotiche, specie in un posto dove ognuno tende a non occuparsi troppo degli atteggiamenti altrui, preferendo badare ai fatti propri. La signora indossa un tailleur grigio chiaro di stoffa leggera, molto elegante. Corporatura snella, viso leggermente affilato. Capelli castani lisci, raccolti sulla nuca, trucco leggero attorno agli occhi dello stesso colore del crine, che risaltano, grandi, sopra zigomi appena un po' sporgenti. Naso lievemente appuntito, ideale vertice di un triangolo la cui base è formata dall'onda delle carnose labbra, sulle quali il poco rossetto carminio non deve affaticarsi troppo per far brillare quel mezzo sorriso, che invoglia chi lo guarda ad immaginarne anche l'altra metà. Un'artistica fossetta scava il mento stretto, donando un tocco di fascino parigino al tutto,  lasciando anacronistico ogni eventuale interrogativo sull'età.
Le abbozzo, di rimando, un mio mezzo sorriso, nel tentativo di confermarle quel che suppongo abbia pensato, evitando di rivelare il naufragio che è in corso in me. Rapidamente il suo sguardo devia verso l'esterno del vagone: è la sua fermata. Mentre ricompone il suo mezzo sorriso, la signora si prepara a scendere, non tralasciando di riporre nei miei occhi un suo ultimo sguardo, stavolta più diretto e serio, quasi a segnalarmi che quella fermata potrebbe essere anche la mia.
In effetti, riflettendoci e naufragandoci su, a questo punto quale potrebbe non essere la mia fermata?
La scritta dice Belleville, località di Parigi decentrata rispetto alla zona turistica, ammeso che a Parigi vi siano zone non turistiche. La signora si avvia con passo elegante e sicuro verso la porta scorrevole dell'uscita e i passeggeri rimasti sul vagone, quasi avessero udito un richiamo, si alzano all'unisono accodandosi a lei, quasi meccanicamente, come per seguire l'hostess che li conduce all'imbarco sull'aereo. Incuriosito da questa inaspettata scena mi accodo anch'io, ultimo della fila. L'hostess scende dal convoglio e si dirige svelta verso la scalinata che porta alla superficie facendo da capofila anche ai passeggeri scesi dagli altri vagoni, unendoli in una specie di serpentone umano che sale all'aria aperta, mentre il serpentone sotterraneo sbuffa chiudendo le porte, e striscia velocemente sferragliando verso le successive stazioni del suo antico tragitto. In coda al rettile umano salgo gli ultimi scalini, e mentre i tiepidi raggi del sole primaverile sciolgono le squame di quel serpentone, disperdendolo, scorgo da lontano la sinuosa sagoma dell'hostess entrare dentro la porta di una vetrina di un'agenzia viaggi: “adieu, ma belle dame!” penso rassegnato.
A Belleville oggi è giorno di mercato, e sotto i palazzi immortali di una Parigi stile “belle époque” scorre impetuoso un fiume di bancarelle e di gente multicolore, in stile “nouvelle époque”.
L'aria di un aprile generoso di raggi solari si unisce al tutto, diffondendo caldi effluvi speziati dalle origini più disparate: africana, orientale, caraibica, con qualche profumo tipicamente mediterraneo a fare da sottofondo ad una sinfonia di aromi che risuona festosa, senza bisogno di direttore d'orchestra. La stagione primaverile non esita neppure a far risaltare i colori, sgargianti e festosi nelle etniche vesti di corpulente donne africane che si aggirano tra i banchi della frutta e della verdura, scegliendo con antica perizia i pezzi più intonati ai colori dei tessuti che indossano, eredità della loro terra lontana. Persino il grigio delle gonne delle signore indigene sembra splendere al riflesso verde smeraldo delle foglie di lattuga esposte dagli ortolani. Le voci si propagano libere nell'aria tiepida, parlano tutte le lingue e nessuna, raccontano in arabo storie di maghrebini ormai francesi, parlano in francese di europei di pelle scura importati da un Senegal per loro ormai dimenticato. Suonano come tanti mantra che si intrecciano a formare un rumore solo, un rumore indecifrabile, ma che ha in se' qualcosa di magico. Una magia che mi avvolge, mentre lentamente cammino tra bancarelle e folla, e confonde sempre di più realtà e sogno. Finchè giungo a non distinguerli più del tutto, nel preciso momento in cui, tra una bancarella di frutta tropicale e una di stoffe ivoriane, improvvisa come un temporale ma piacevole come una carezza, mi si para davanti lei: l'hostess che avevo incontrato in métro, nonché capofila del serpentone umano. Tiene tra le mani un plico di lucidi volantini pubblicitari plastificati e sul viso uno sguardo luminoso e caldo come il sole di primavera, il suo sorriso non lo so descrivere ma mi lascia piacevolmente frastornato. Mentre ricevo senza accorgermene il suo messaggio pubblicitario, senza riuscire a ricambiare con un mio messaggio qualsiasi la vedo passarmi oltre, con la sinuosa falcata che la contraddistingue, mentre un altro serpentone umano vedo formarsi dietro i suoi passi, facendola di nuovo sparire dalla mia vista. Senza accorgermi faccio scivolare dalle dita il volantino che si perde a terra. Alcuni istanti senza pensieri mi scombinano la mente; ormai non so più se davvero ho assistito a quella scena o se l'ho solo immaginata. Il mio dubbio viene subito risolto: si alza un improvviso vortice di vento, impetuoso quanto impertinente; si sollevano polvere e cartacce da terra e si mettono a svolazzare, e mentre mi rimetto a camminare una di queste cartacce mi si spiaccica in piena faccia. Lo riconosco, è il volantino che la serpentessa-hostess mi aveva consegnato e che mi era sfuggito di mano. Il vento, evidentemente, vuole che lo legga. C'è la foto di un enorme specchio in una cornice in stile seicentesco. E' scritto in francese, ma insolitamente c'è anche la traduzione in italiano: “Le Miroir – Il locale più impensabile del mondo. Nulla di quel che vedrai l'avresti mai pensato. Vedrai ciò che hai sempre pensato ma che non avresti mai immaginato. Le Miroir ti porta sulla rotta giusta. Vienici a trovare: 19, boulevard Cristophe Colombo (dietro il molo 26 dov'è attraccata la scialuppa) Boulogne sur Mer”. A parte il misterioso riferimento sulla scialuppa attraccata al molo 26, che non vedo come possa orientare meglio il potenziale avventore, credo che ci siano cose interessanti che mi aspettano a Boulogne sur Mer.

(Fine terzo episodio)

Marco Bertelli

domenica 17 febbraio 2013

Due dialoghi



La processione è ormai arrivata alla pira, la costruzione della “giustizia” terrena. Qui salirà il condannato, l'Eretico, per essere pubblicamente arso vivo. L'Eretico è passato tra due ali di folla, scortato da inespressivi frati, che meccanicamente recitano salmi. Tra la folla c'è chi inveisce, chi prega, chi gli sputa addosso e chi implora i santi di riversare pietà sull'anima del condannato. Non dice niente l'Eretico, la folla vede che tiene in bocca una mordacchia, che gli serra la lingua sanguinante, e pensa che non potrà far altro che urlare di dolore, di lì a poco, quando il rogo lo consumerà. L'esecutore dell'umana “giustizia” attende, alto e solenne, che gli venga consegnato il condannato, Eretico anche nel rifiutare gli ultimi sacramenti che gli vengono offerti dai frati confortatori del San Giovanni decollato: arso sì, ma intero, a dispetto di chi continua a vivere, se è possibile farlo, privo di testa.
Eccolo sul patibolo, il capo avvolto dentro un antico cappuccio, egli guarda avanti, dentro gli occhi del suo giustiziere:
“Avanti uomo, fa il tuo dovere”. Le parole del condannato escono inspiegabilmente chiare e limpide da una bocca che, fosse di qualsiasi altro umano, non potrebbe articolare sillabe comprensibili all'orecchio. Il boia trasecola, folgorato da quell'incredibile frase. La voce del condannato sgorga naturale come acqua di sorgente, fiera e profonda, e gli parla.
“Come puoi parlarmi da quella gola martoriata?” risponde, mentre il suo sguardo attonito si ferma in quello privo di paura del condannato.
“Ci sono voci che non hanno bisogno di una bocca per farsi udire, hanno tentato di far cessare la mia con sette anni di torture e minacce, ora usano mordacchia e fiamme per cercare di distruggerla, ma nulla possono, né potranno mai”, la voce del condannato risuona senza stenti.
“Tu sei quel pazzo che non abiurò, che disse ai cardinali inquisitori che non aveva paura e che a tremare davanti a te erano loro, ma ora sarai bruciato, così come lo saranno i tuoi libri, come fai a non avere paura per te e per la tua anima?” incalza il boia ricordando al frate il suo incombente destino.
“Il mio corpo teme il fuoco, ma la mia Anima ne aspetta il battesimo. Quanto ai miei scritti, molti di questi sono al sicuro, in posti dove l'ingiustizia non alberga, altri andranno persi, ma nemmeno di quelli si potrà soffocare la voce, assai più forte di quella che ora ti sta parlando”. E' la sentenza dell'Eretico, che tirando il fiato, ormai corto, riprende: “Il mio corpo ha lottato con Furore, ha perso la sua battaglia col suo tempo e con questi tempi, ma l'Anima che lo ha vestito trionferà oltre ogni tempo”. Conclude l'Eretico, mentre nei suoi occhi si vedono chiaramente le fiamme del rogo già accese. Il boia vede avvampare quelle fiamme, vive e ardenti, sente il loro calore arrivare fino al proprio corpo, anche se ha ancora stretta nella sua mano la torcia che ancora non ha toccato le sterpaglie che circondano la pira. Sente la paura nel corpo del condannato attingere il suo corpo, e con un gesto istintivo arretra qualche metro, mentre la torcia accesa gli sfugge di mano, andando a cadere sulle sterpaglie, dando fuoco al rogo. Una voce senza tempo dentro il fuoco lo spinge ancora indietro: “Ecco il mio Battesimo del Fuoco”, sente pronunciare, prima che le grida umane di un corpo che sta bruciando abbiano il sopravvento.

Il vecchio giace nel suo letto, il corpo decrepito e stanco. Molti anni aveva vissuto, molte morti aveva dovuto vedere, provocate per lo più dalla sua mano, che era quella della giustizia degli uomini. Ora stava vedendo la morte sua, chiaramente riflessa negli occhi umidi di lacrime del figlio seduto al suo capezzale. Non sente tristezza, solo la fatica di dover perdonare a se' stesso i molti crimini che la giustizia degli uomini aveva già perdonato a lui. Su tutti quel rogo del febbraio del 1600, a Campo de' Fiori, che non aveva più potuto scordare. Il figlio, invece, di quelle tante morti non si è mai macchiato, aveva potuto studiare, diventando, inopinatamente considerati i problemi di casta, un Notaio.
“Figlio mio” dice il vecchio, “grazie di essermi vicino nell'ora estrema, perchè la tua presenza solleva il peso della paura da queste povere e malandate membra”.
“Grazie a te, padre mio” dice il figlio, gli occhi annegati nelle lacrime, “ciò che sono lo devo solo a te, a quei libri “segreti”che mi portasti, dopo averli sottratti di nascosto al rogo che ne volevano fare”.
“Furono gli occhi di quello strano frate che mi fecero capire che in lui c'era qualcosa di più grande, e che non meritava di morire così. Io sapevo dove tenevano i libri che volevano bruciare nel rogo che seguiva il suo, ho portato via quelli che potevo. Sentivo che era giusto salvare almeno loro”. Dice il vecchio con voce sempre più flebile.
“Amministravi la giustizia degli uomini, ma in questo caso hai fatto la Giustizia Divina”, lo rassicura il figlio, “quei libri resteranno ancora a lungo proibiti, ma un giorno verranno visti sotto la loro vera Luce, e gli uomini potranno conoscere la Vita e il Pensiero del “Mercurio” che li ha scritti. Sino ad allora verranno custoditi da persone come me e dalle loro discendenze”.
Il vecchio sente svanire la Vita dal suo corpo, dolcemente, ma i suoi occhi si spalancano, mentre negli occhi del figlio le lacrime sembrano spegnersi, lasciando il posto alle fiamme, le stesse che egli non poteva dimenticare, quelle viste il 17 febbraio del 1600 negli occhi di quell'Eretico: 
Giordano Bruno. 


Marco Bertelli

lunedì 11 febbraio 2013

Il Messaggio

Molti pensavano che la profezia dei Maya fosse un evento catastrofico estremo, che si sarebbe verificato il 21 dicembre 2012. Probabilmente, quelli che ci avevano creduto, il 22 dicembre 2012 hanno pensato che i Maya fossero degli antichi stregoni dediti all'uso di allucinogeni, e che, sotto l'effetto di tali sostanze, si siano divertiti a prenderci in giro. Ora anche chi sapeva che nessuna fine del mondo avrebbe avuto luogo in quella fatidica data, deve dare atto ai Maya, popolo antico depositario di enormi saggezze, che avevano pienamente ragione, e siamo noi, semmai, che non sappiamo interpretare antiche e sagge profezie. I Maya, detti anche “I Custodi del Tempo”, alcuni millenni fa sapevano che alla fine di quello che per noi è stato l'anno 2012, il mondo non sarebbe più stato uguale a prima. Quel famoso “calendario” era il loro Messaggio per noi, che di custodire il tempo siamo assai poco capaci. Quello che forse nemmeno i Maya sarebbero stati in grado di profetizzare, è che a leggere quel Messaggio sarebbe stato il massimo esponente della più importante organizzazione religiosa del pianeta. Il Papa Benedetto XVI si dimette, lascia l'incarico.
Con un gesto completamente fuori dai tempi e dagli schemi comunemente accettati e condivisi nella società attuale, gesto che solo una persona di alto spessore morale è in grado di compiere, colui che tornerà ad essere Joseph Ratzinger ha dato il via formale ad un cambiamento che avrà una portata a dir poco epocale, e i cui effetti, sicuramente grandiosi, fatichiamo ancora ad intuire.
Il messaggio che i mass media si sforzano di far passare è quello che il Papa, oberato dal peso dell'età e sotto lo stress di un incarico logorante, non ha più la forza di continuare, ed egli, onestamente, ne prende atto e si fa da parte. Tale versione dei fatti, però, può bastare solo agli stessi che temevano catastrofi il 21/12/2012. C'è qualcosa di molto più profondo, a mio avviso, in un gesto di un uomo il cui potere non poteva essere minacciato in alcun modo se non da se' stesso, come sembra essere la situazione che riguarda Benedetto XVI.
Forse la precisa presa di coscienza della necessità immediata di un cambiamento radicale di un qualcosa che per troppi secoli è andato avanti a forza di dogmi, di “verità” imposte e immutabili, volte solo a rafforzare l'autorità e il potere della Chiesa nel mondo, ma che alla lunga hanno indebolito la Fede Cristiana nelle persone.
Come diceva Oscar Wilde, “La religione è un comodo sostituto della Fede”, e l'equivoco che si è rafforzato nel tempo, a causa della dottrina propagata dalla Chiesa nei secoli, è che Religione e Fede fossero la stessa cosa. Forse è questo il vero peso che grava sulle spalle della figura del Pontefice al giorno d'oggi, ed è più che comprensibile che l'età anagrafica lo amplifichi a dismisura nella coscienza del futuro ex Papa.
Ratzinger, evidentemente, conosce molto bene la differenza tra religione e Fede, e sa che è giunto il tempo delle decisioni radicali che debbono realizzare il cambiamento che serve, decisioni che egli non è in grado di prendere.
Così, con un gesto di profonda umiltà che lo fa indubbiamente Grande, si fa da parte, accettando un volere a lui superiore, come si addice a chi ha Fede. Forse non sarà il suo primo successore a realizzare il cambiamento che serve e che riguarderà tutti, “credenti” e non, “praticanti” e non, ma ciò che Benedetto XVI ha fatto è stato l' inizio di un qualcosa da cui non si potrà tornare indietro.
Fa una certa impressione rilevare come l'annuncio di oggi arrivi a pochi giorni dall'anniversario del rogo di un Filosofo che la Chiesa ha, oltre che bruciato, tentato di oscurare per secoli.
Giordano Bruno, oltre quattro secoli fa, aveva tentato di spiegare che la Chiesa doveva avere Fede, ma fu bruciato, perchè ritenuto Eretico.
Oggi Benedetto XVI, un po' ereticamente, si è dimesso. Lo ha fatto leggendo un Messaggio in latino, con qualche inflessione Nolana.

Marco Bertelli

mercoledì 6 febbraio 2013

Le Miroir (Lo specchio) - 2^ episodio: ritmi metropolitani

(riprende dal 1^ episodio)

Tra la mia provincia di partenza e la metropoli di arrivo esiste una distanza fisica misurabile in un paio di centinaia di chilometri, e una distanza temporale che varia a seconda del mezzo di trasporto utilizzato, ed è calcolabile all'incirca con un giro e mezzo/due di lancette che misurano minuti su un orologio di ordinaria precisione. Esiste però un altro tipo di distanza, quella “umana”, che va oltre le convenzionali dimensioni spazio/temporali. Misura l'intensità con la quale una metropoli incide sullo stato d'animo delle persone, evidenziandone gli effetti sul loro corpo fisico e, di conseguenza, sul loro comportamento. La distanza “umana” che esiste tra le persone e la metropoli non è misurabile con apparecchiature tecnologiche, né quantificabile con valori scientifici. Ciò, però, non significa affatto che non sia rilevabile. La puoi comodamente osservare stando scomodamente appoltronato su un qualsiasi sedile in una carrozza di seconda classe di un treno mediamente frequentato che scivola sulle rotaie, risalendo la via Emilia con tutte le sue città. I treni a medio/lunga percorrenza sono luoghi virtuali o non-luoghi, come si preferisce. Sono sale d'attesa in cui si proietta la propria vita da un altra parte e in un altro orario, con persone diverse da quelle presenti. La prima cosa che fa un abituale passeggero che deve frequentare per un ora e mezza il treno, dopo essersi seduto, è tentare di scoprire ciò che succede fuori dal posto dove si trova, o cosa succederà quando arriverà . Può aprire il giornale per confermare a se' stesso cosa sta succedendo alla nazione, chiamare al cellulare qualcuno che lo sta aspettando alla destinazione, può connettersi wireless a lontanissime borse asiatiche, per avere l'oroscopo finanziario della giornata, e tante altre cose simili. Ciò che proprio non riesce a fare è liberarsi dal vortice che lo sta risucchiando dentro la metropoli. Un vortice che non tiene conto di quanto distante sei, di quanto tempo ti serve per raggiungerla. Buca lo spazio e divora il tempo, ti entra in testa e fa sparire il luogo dove ti trovi e le persone che in quel momento ti sono intorno. Il finestrino che trasmette le immagini del panorama al cui fianco sfreccia il treno è inesistente, gli occasionali compagni di viaggio che siedono a fianco o di fronte sono ombre, spesso a loro volta intente a fare la stessa cosa: vivere dentro ad un sogno, proiettando altrove una loro realtà. Quanto è “umanamente”distante Milano dalla provincia? A occhio e croce si direbbe qualche manciata di kb di connessione internet, o un trillo di suoneria di cellulare, ma nella mente di quelle persone la metropoli è arrivata già prima, annullando ogni distanza “misurabile”. Risiede nella loro mente, sotto forma di cose da fare, decisioni da prendere, “speriamo che non...”, “magari ci fosse...”, “e se io facessi...”, e altri giochini interessanti che durano il tempo di un viaggio in treno, al termine del quale il vortice si spegnerà. Davanti ai loro occhi si spalancherà lo scenario nel quale verrà rappresentata la differenza tra le loro realtà virtuali, vissute fino a poco prima sul sedile del treno, e i fatti reali che accadranno nella loro giornata. Il fascino della metropoli sta tutto nello scoprire questa differenza: può essere una delusione, se i fatti smentiranno l'immaginazione, oppure una vittoria, nel caso la giornata abbia superato le aspettative. Milano è una promessa a se' stessi, che tutti coloro che ogni giorno scendono da un treno in una delle sue tante stazioni, trascinati da uno strano vortice, si impegnano a mantenere. Non importa se ci riusciranno o meno, l'indomani ce ne sarà un'altra uguale o migliore.
Io, anche se nella condizione di naufrago, non sono esente dal fascino della metropoli, e il vortice Milano risucchia anche me, al pari degli altri. Un naufrago, però, non può permettersi di pensare alla promessa dell'indomani, deve stare attento a mantenere quella dell'oggi.
Ho promesso a me stesso, oggi, di trovare una rotta nuova, e così sia.
Scendo dal treno, poi dal trampolino della scalinata della stazione centrale, che mi lancia in un tuffo nello spazio aperto della metropoli. Con un'andatura che in provincia è considerata “normale” mi incammino nella zona prospiciente la stazione, e le persone mi sorpassano sfrecciando da ogni parte, con l'andatura che a Milano è considerata “normale”. La mia relativa lentezza viene scambiata per esitazione da qualcuno che nelle altrui esitazioni, evidentemente, trova materia di business. Vengo avvicinato da un tipo che mi propone ciò che lui chiama “paradiso”. Trovare il paradiso in terra è un po' la rotta che tutti vorrebbero seguire, ma c'è qualcosa in questo “paradiso” che mi convince poco; il tipo mi mostra una bustina trasparente dove è contenuta della polvere bianca, e col suo accento poco lombardo mi spiega che per una trentina di euro potrò conoscere, previa inalazione, le divine delizie dell'assoluto. Tento di spiegargli che, se per conoscere “il paradiso” dovessimo metterla sul prezzo, allora i monaci buddisti del Tibet, inalando sola aria, le divine delizie dell'assoluto le assumono quotidianamente, gratis. Il tipo non si capacita che ci sia in giro una banda di spacciatori concorrenti che vende il “paradiso” a prezzi così stracciati. Se ne va tra lo scoraggiato e l'incazzato. Tra me e me sorrido, mentre penso che ci sono in giro naufraghi assai più naufraghi di me, e qui a Milano basta adeguarsi all'andatura che viene considerata “normale” per evitarli. Con l'adeguamento dell'andatura ai ritmi metropolitani, fra l'altro, potrò raggiungere il cuore della città più velocemente. Prima di arrivarci, però, decido che un buon caffè può essere adatto per farmi sostenere il passo ai ritmi più elevati che la situazione richiede. E' ormai l'ora dell'aperitivo quando entro in un bar in un viale non distante dal centro. Il locale è frequentato da varie categorie metropolitane. Qualche imprenditore in compagnia del cliente, giornalisti in pausa aperitivo (la sesta della mattinata) in compagnia di colleghi di altre testate, esponenti (non si capisce a quale livello) di case di moda in compagnia della collezione autunno/inverno prossimo, che indossano con ostentazione pretendendo gli altrui commenti di approvazione. Vi sono poi clienti che apparentemente non appartengono a nessuna particolare categoria metropolitana, cui sembra essere compresa la mia categoria di naufrago. Capisco che non è così quando ordino il mio caffè, il che sembra un eresia dal momento che “questa sarebbe l'ora dell'aperitivo”, come suggeriscono i tanti contenitori tutti pieni di tartine e salatini che occupano l'intero bancone del bar. A questi si aggiungono gli sguardi straniti del barista e dei clienti, indipendentemente dalla loro categoria metropolitana di appartenenza. A Milano non ci si aspetta che una persona “normale” si prenda la briga di spezzare il ritmo di una giornata metropolitana. Su questo, sui ritmi che scandiscono la vita quotidiana, la metropoli genera i battiti del suo cuore. Puoi far parte della categoria che vuoi, puoi andare dove vuoi, ma devi adeguarti al ritmo. I tuoi passi devono seguire il ritmo, il tuo stomaco deve seguire il ritmo, i tuoi pensieri e il tuo stato d'animo debbono adeguarsi al ritmo. Vivere qui significa andare a ritmo con “il tutto metropolitano”, e il ritmo non lo decidi tu, è qualcosa di molto più grande di te. Devi imparare solo a lasciarti coinvolgere.
Non senza imbarazzo, mio e del barista, ottengo il mio caffè, da bere non sul banco, ma in disparte.
Lo consumo in fretta (a ritmo), e mentre il bar si fa una ragione delle stranezze di un naufrago, esco e riprendo il mio ritmico cammino. Mentre i miei passi riflettono su quale sia il ritmo giusto da seguire, la mia mente alambicca sui pro e i contro dell'adeguarsi a un qualcosa che di per se' non mi garantirebbe una navigazione ideale. Il vortice che mi ha risucchiato qui mi vuole trattenere, ma una parte di me vorrebbe trovare un vortice che da qui mi portasse via.
Mentre la mia mente cerca vortici, i miei piedi ritmici mi portano nel centro della vorticosa metropoli, dove il brulicare di metropolitani è reso più fitto dalla folla dei turisti. Nel centro di Milano le attrattive non mancano: i turisti sguazzano dalle bellezze di un Duomo dalle guglie che sembrano afferrare il cielo, tirandolo giù per far sembrare la Madonnina d'oro ancora più alta di lui, alle stranezze di variopinti personaggi neo-punk che attraverso il trucco del loro viso e le loro creste multicolori mostrano agli occhi della gente quanto può sbizzarrirsi la voglia di non restare anonimi. Mi imbatto in un capannello di persone che circonda il set di un servizio fotografico. La moda è di casa qui a Milano. Riesco a farmi strada tra gli altri come me incuriositi. Le modelle sono bellissime, potrei, come tutti quelli vicini a me, star qui mesi ad ammirarle. Parlano francese. Mentre aspettano di esibirsi in altri scatti, tra loro, si scambiano opinioni sulla location. Piazza Duomo a Milano è carina, dicono, c'è gente divertente, ma Parigi è un'altra cosa, alla fine concordano. Concorderei anch'io, se mi notassero. In effetti Parigi è tutta un'altra cosa: la sua bellezza “monumentale”, la sua cultura così all'avanguardia, gli artisti dalle idee così libere. Sento la presenza di un vortice. Forse quello che una parte di me si augurava di trovare. Il vortice mi parla, suggerisce: via da qui, à Paris...

(Fine secondo episodio)

Marco Bertelli

venerdì 1 febbraio 2013

Dove sta Zazà? Ovvero: "...pare che t'ho perduto, ahimè!!!"

C'è un detto popolare molto famoso che dice: “l'Epifania tutte le Feste si porta via”. Quest'anno, al contrario, le feste hanno avuto inizio proprio dopo la visita della Befana. Se la crisi economica ha imposto agli Italici un Natale ed un capodanno all'insegna dell'austerità (o, nella maggioranza dei casi, delle ristrettezze che poco si addicono alla fastosa tradizione natalizia delle famiglie del Bel Paese), ci ha pensato la crisi politica a dispensarci i lussuosi doni che a dicembre sono rimasti invenduti nelle vetrine dei negozi. Così i nostri politici, tanto per smentire le voci dei soliti maligni che li dipingono come sfaccendati usurpatori di seggi parlamentari (cito solo le voci dei maligni “benevoli”), hanno deciso di accendere nuove luminarie per le strade delle città e dei paesi, e, tramite l'appoggio dei consenzienti e cointeressati mass media, anche per le strade virtuali dell'etere televisivo, radiofonico e del web. L'Italia è di nuovo in festa, e il clima di festa ci trascina tutti per le strade e per le piazze, virtuali e non, a goderci questo spettacolo fatto di luci e bancarelle piene di deliziosi doni. La crisi economica non può nulla, stavolta. Possiamo essere dei ricchi o dei poveracci, ma tutti abbiamo diritto a sceglierci un dono. Non dovremo pensare al portafoglio, al conto in banca, alla scadenza della carta di credito e a tutte le magagne che possono nascere quando si debbono spendere i propri soldi. Il prezzo è in natura, il costo per il dono è un voto.
Grazie alla Democrazia possiamo scegliere. Tutti.
Lei è come la fidanzata, che ti accompagna in una rilassante, romantica passeggiata di una domenica pomeriggio; come ci si sente bene a braccetto con l'amata in mezzo alla gente in un clima di festa, tra le vetrine sfavillanti di luci e delizie che sai che potrai regalare a chi ti vuole bene. Ti senti ricco e in pace con tutto e con tutti, sono momenti magici; dimentichi i problemi e pensi solo alle cose belle.
E' così, con questo stato d'animo e con Democrazia a braccetto, che mi avvicino alle prime bancarelle. La prima che incontro è tutta colorata di un rosso un po' sbiadito: si vede che è la stessa bancarella che viene utilizzata da tantissimi anni, perchè sembra un po' usurata. Dietro c'è un uomo molto distinto e dai modi gentili e dalla voce tranquillizzante: “Noi regaliamo un'Italia più onesta e più giusta. Equità e lavoro per tutti, basta coi soprusi sui più deboli. Più cultura e meno ignoranza per tutti”. Questo è quello che il distinto signore mi propone come dono. Non male, penso io. Poi vedo che mi indica un cartello in alto alla sua sinistra: “Vede qui? Siamo di gran lunga in testa nei sondaggi. Vinceremo noi!!!”. Buono a sapersi, osservo tra me e me, mentre mi avvio verso il successivo stand. La seconda bancarella è colorata di azzurro, anzi, a ben guardarla, è un'enorme maglietta della nazionale di calcio. C'è un omino di una certa età ma dai modi molto giovanili che saltella su e giù, eccitato. “Libertà, libertà, libertà!!!!” sbraita senza smettere di saltellare. “Diventeremo tutti ricchi, tutti faremo quello che ci pare!!! Con noi non ci saranno più tasse, andremo al ristorante tutte le sere e avremo sempre belle ragazze alle nostre feste, se ci darete il voto vi diamo in omaggio anche un centravanti della nazionale”. Penso che il tipo dovrebbe stare un po' più tranquillo, e comunque non so che farmene di un centravanti. Ma lui incalza e mi mostra il cartello in alto a destra: “I sondaggi ci vedono in fortissimo recupero, tra un po' saremo in testa, vinceremo noi!!!”. Mi allontano pensando che il cartello che mi indica è un po' diverso da quello che avevo visto nell'altra bancarella. Mentre cerco di avvicinarmi allo stand successivo, noto che il viale festoso delle bancarelle si sta riempiendo a dismisura di gente. Tutti che corrono trafelati da uno stand all'altro. Non capisco tutta questa agitazione, ma sento allentarsi leggermente la stretta della mano di Democrazia al mio braccio. La guardo e mi sembra di scorgere in lei uno sguardo distratto, annoiato. Non ho il tempo di chiederle se tutto va bene, la terza bancarella si sta avvicinando a me. Incombe un signore dai capelli leggermente lunghi, brizzolato. “Ladri, schifosi, farabutti, affanculo voi e chi vi vota!!!!” Le urla del brizzolato (che, dicono, un tempo faceva ridere), mi travolgono e mi assordano. “Siamo solo noi i veri democratici. Da noi uno vale uno, e chi tra noi osa discutere, gli diamo un calcio nel culo e lo sbattiamo fuori dalla porta!!! Siete fortunati che ci siamo qui noi, altrimenti ci sarebbero i fascisti!!!”. Pensa che fortunati che siamo, dico tra me e me, sforzandomi di ricordare la differenza che passa tra un partigiano e un balilla.
Ma l'ex (molto ex) comico: “I sondaggi ci danno tra i favoriti. Nessuno potrà governare senza fare i conti con noi. Vincere, e vinceremo!!!”. Gli rispondo facendogli i miei sentitissimi auguri, mentre mi esibisce il suo cartello dei sondaggi, diverso dai due che mi avevano fatto leggere i suoi colleghi in precedenza. Democrazia, al mio fianco, affievolisce ulteriormente la sua stretta, mentre la gente intorno diventa sempre più numerosa ed agitata. Ora la confusione mi impedisce quasi di spostarmi. Un signore, inavvertitamente, mi urta. Si scusa, educatamente. Gli chiedo come mai tutta la gente corre così all'impazzata da uno stand all'altro. “Caro signore" mi risponde "stanno tutti andando a vedere i sondaggi. Ogni 5/6 minuti le bancarelle mettono fuori un sondaggio nuovo, e tutti vanno a vedere cosa dice. Così, quelli che non hanno ancora scelto il loro dono, possono farsi la loro idea”.
Proprio mentre il signore sta finendo la frase, si sente salire una voce dalla folla: “Nuovi sondaggi allo stand del Movimento cinque sberle!!!”. Improvvisamente vengo travolto da un'ondata umana che va ad infrangersi verso la bancarella che avevo appena lasciato. Cerco di farmi spazio e di risalire la corrente, sperando di trovare rifugio oltre la cortina umana. Con fatica riesco a trovare uno spazio vuoto dove posso respirare. Ma ... non sento più la mano di Democrazia. Mi guardo intorno, ma non la vedo. Provo a ributtarmi nella mischia, a guardare per terra, caso mai fosse caduta: niente. Tento di tornare sulla strada di prima, per vedere se sta tornando a casa da sola: niente. Chiedo a qualcuno se per caso ha visto la mia ragazza. Il signore che prima mi aveva urtato, molto educatamente, mi fa notare che nemmeno prima, quando ci eravamo scontrati, l'aveva vista. Mi sembra di essere dentro ad un incubo. La chiamo: “Democrazia!!!!”... “Demo!!!”... Crazia!!!”
Macchè. Non la trovo più. L'ho perduta.
Mio Dio, e ora? Che ne sarà di me, senza lei? Come farò ad andare avanti senza lei?

La folla, indifferente, corre, urla: “Nuovi sondaggi!!!!!”


Marco Bertelli