(Prosegue dalla prima parte)
Con gli insegnanti la situazione era
migliore tranne che con la professoressa di matematica Donatella
Zanara e quello di educazione fisica Vittorio Dallacqua.
Zanara era una zitella prossima alla pensione, dico zitella perché incarnava tutte le caratteristiche che si attribuiscono al termine: magra, alta, mento e naso prominenti, vestita come mia mamma quando era ragazza e un odio sviscerato verso gli uomini, quegli uomini che non l’avevano mai amata, forse per una sua incapacità o forse perché non aveva mai incontrato quello giusto se mai fosse esistito.
La parola single indica qualcosa di diverso, si è single per scelta o perché la vita ha portato a esserlo comunque, una persona single si crea un’esistenza che poi difficilmente riesce a condividere con qualcuno e spesso non la vuole cambiare. Essere zitella è una costrizione.
Non capivo niente di matematica e le interrogazioni erano un supplizio come pure le verifiche. Zanara mi chiamava “signor pastasciutta”, una cosa impensabile oggi; se un insegnante usasse un linguaggio del genere rischierebbe quantomeno l’allontanamento, ma erano altri tempi. I miei ne erano dispiaciuti ma potevano fare poco, vivevo in un ambiente dove la parola e il giudizio di un insegnante non andava contraddetto e forse nemmeno capivano, sì perché un bambino non è mai grasso agli occhi di certe mamme, nel peggiore dei casi è robusto, un eufemismo che non sopporto ancora adesso, poi bisogna mettere in conto la soddisfazione nel vedere un figlio che mangia per dei genitori che appartengono a una generazione che ha conosciuto la fame.
Verso la fine della seconda media, al termine di una brutta interrogazione Zanara mi disse:
“ Signor pastasciutta, farò in modo che ti boccino, ma se ciò non dovesse succedere ti lascerò nel tuo brodo”.
Fu il primo sentito, sincero e liberatorio vaffanculo che mormorai sottovoce tornando al mio posto.
Su un muro nel cortile della scuola c’era scritto: Dallacqua fascista, non fui io a scriverlo, non ne sarei stato capace, tantomeno sarei arrivato a pensare una frase del genere, però la condividevo in pieno. Non so se quell’insegnante di educazione fisica fosse un atleta fallito o un militare radiato per qualche strano motivo, di sicuro ricordo le sue urla che rimbombavano nella palestra. Era un uomo basso, dall’aspetto tozzo e calvo e forse chi fece quella scritta pensò anche alla sua mascella prominente oltre che ai suoi metodi. In palestra riuscivo più a meno a essere all’altezza degli altri se si trattava di fare una corsa di resistenza o certi giochi di squadra, andava peggio con la corsa di velocità ma il mio incubo era la pertica. Tutti riuscivano a salire lungo quell’odiato tubo rosso, arrivavano in cima, toccavano la staffa che lo teneva ancorato alla parete e poi lentamente scendevano, ci riuscivano tutti tranne me.
Dopo qualche penoso tentativo rinunciavo; allora Dallacqua allungava un braccio verso di me e tuonava:
“ Non riesci ad alzarti nemmeno di un palmo ! ”
Non ebbe mai la sensibilità di evitarmi questo esercizio e in quei momenti, assieme all’umiliazione che provavo nell’abbracciare la pertica senza riuscire ad arrampicarmi davanti a tutta la classe, incominciava a nascere in me il pensiero che di sicuro doveva esistere qualcosa in cui ero migliore di loro e dovevo fottermene, si fottermene dei loro commenti e delle loro risate perché “ non dare importanza “ era un termine troppo lieve per descrivere il mio stato d’animo e un giorno saranno stati loro a invidiare me.
Fui bocciato e ripetei l’anno in un'altra scuola. Le cose stavano cambiando, non solo perché finii le medie con un distinto che sorprese e riempì d’orgoglio buona parte della famiglia, ma soprattutto perché mia nonna, durante l’estate che precedette la prima superiore, si stancò di vedermi così grosso e indolente.
Un giorno, senza nemmeno chiedermi un parere, mi mise a dieta; fu una dieta faticosa, presa forse da qualche rivista e prevedeva solo petti di pollo, fagiolini, mele e tanta acqua. Quella che è chiamata l’età dello sviluppo mi aiutò e cominciai le superiori che ero un’altra persona.
Non sono stati anni belli quelli della mia pre adolescenza, però in tante cose recuperai, ad esempio alle superiori vinsi il confronto con la pertica, nelle partite di pallone il calcio d’inizio lo decideva la monetina e i rapporti con gli altri migliorarono notevolmente. Di sicuro quegli anni difficili mi insegnarono molte cose.
Una persona che è stata grassa non si vedrà mai magra, anche quando avrà perso metà dei chili, nemmeno quando potrà indossare subito un abito nuovo senza portarlo tutte le volte in sartoria per qualche modifica, nemmeno quando qualcuno gli dirà:
” Sai che stai proprio bene, come hai fatto ? Devo mettermi a dieta anch’io “
L’ex grasso lo guarderà e penserà che se un tempo fosse stato come lui non avrebbe mai fatto nulla per cambiare il suo aspetto.
Una persona che è stata grassa, quando si mette davanti allo specchio, continua a vedersi grassa, ha di se un’immagine distorta, come se si trovasse davanti ad uno specchio convesso, una deformazione che è dentro di se e lo accompagnerà per sempre.
Zanara era una zitella prossima alla pensione, dico zitella perché incarnava tutte le caratteristiche che si attribuiscono al termine: magra, alta, mento e naso prominenti, vestita come mia mamma quando era ragazza e un odio sviscerato verso gli uomini, quegli uomini che non l’avevano mai amata, forse per una sua incapacità o forse perché non aveva mai incontrato quello giusto se mai fosse esistito.
La parola single indica qualcosa di diverso, si è single per scelta o perché la vita ha portato a esserlo comunque, una persona single si crea un’esistenza che poi difficilmente riesce a condividere con qualcuno e spesso non la vuole cambiare. Essere zitella è una costrizione.
Non capivo niente di matematica e le interrogazioni erano un supplizio come pure le verifiche. Zanara mi chiamava “signor pastasciutta”, una cosa impensabile oggi; se un insegnante usasse un linguaggio del genere rischierebbe quantomeno l’allontanamento, ma erano altri tempi. I miei ne erano dispiaciuti ma potevano fare poco, vivevo in un ambiente dove la parola e il giudizio di un insegnante non andava contraddetto e forse nemmeno capivano, sì perché un bambino non è mai grasso agli occhi di certe mamme, nel peggiore dei casi è robusto, un eufemismo che non sopporto ancora adesso, poi bisogna mettere in conto la soddisfazione nel vedere un figlio che mangia per dei genitori che appartengono a una generazione che ha conosciuto la fame.
Verso la fine della seconda media, al termine di una brutta interrogazione Zanara mi disse:
“ Signor pastasciutta, farò in modo che ti boccino, ma se ciò non dovesse succedere ti lascerò nel tuo brodo”.
Fu il primo sentito, sincero e liberatorio vaffanculo che mormorai sottovoce tornando al mio posto.
Su un muro nel cortile della scuola c’era scritto: Dallacqua fascista, non fui io a scriverlo, non ne sarei stato capace, tantomeno sarei arrivato a pensare una frase del genere, però la condividevo in pieno. Non so se quell’insegnante di educazione fisica fosse un atleta fallito o un militare radiato per qualche strano motivo, di sicuro ricordo le sue urla che rimbombavano nella palestra. Era un uomo basso, dall’aspetto tozzo e calvo e forse chi fece quella scritta pensò anche alla sua mascella prominente oltre che ai suoi metodi. In palestra riuscivo più a meno a essere all’altezza degli altri se si trattava di fare una corsa di resistenza o certi giochi di squadra, andava peggio con la corsa di velocità ma il mio incubo era la pertica. Tutti riuscivano a salire lungo quell’odiato tubo rosso, arrivavano in cima, toccavano la staffa che lo teneva ancorato alla parete e poi lentamente scendevano, ci riuscivano tutti tranne me.
Dopo qualche penoso tentativo rinunciavo; allora Dallacqua allungava un braccio verso di me e tuonava:
“ Non riesci ad alzarti nemmeno di un palmo ! ”
Non ebbe mai la sensibilità di evitarmi questo esercizio e in quei momenti, assieme all’umiliazione che provavo nell’abbracciare la pertica senza riuscire ad arrampicarmi davanti a tutta la classe, incominciava a nascere in me il pensiero che di sicuro doveva esistere qualcosa in cui ero migliore di loro e dovevo fottermene, si fottermene dei loro commenti e delle loro risate perché “ non dare importanza “ era un termine troppo lieve per descrivere il mio stato d’animo e un giorno saranno stati loro a invidiare me.
Fui bocciato e ripetei l’anno in un'altra scuola. Le cose stavano cambiando, non solo perché finii le medie con un distinto che sorprese e riempì d’orgoglio buona parte della famiglia, ma soprattutto perché mia nonna, durante l’estate che precedette la prima superiore, si stancò di vedermi così grosso e indolente.
Un giorno, senza nemmeno chiedermi un parere, mi mise a dieta; fu una dieta faticosa, presa forse da qualche rivista e prevedeva solo petti di pollo, fagiolini, mele e tanta acqua. Quella che è chiamata l’età dello sviluppo mi aiutò e cominciai le superiori che ero un’altra persona.
Non sono stati anni belli quelli della mia pre adolescenza, però in tante cose recuperai, ad esempio alle superiori vinsi il confronto con la pertica, nelle partite di pallone il calcio d’inizio lo decideva la monetina e i rapporti con gli altri migliorarono notevolmente. Di sicuro quegli anni difficili mi insegnarono molte cose.
Una persona che è stata grassa non si vedrà mai magra, anche quando avrà perso metà dei chili, nemmeno quando potrà indossare subito un abito nuovo senza portarlo tutte le volte in sartoria per qualche modifica, nemmeno quando qualcuno gli dirà:
” Sai che stai proprio bene, come hai fatto ? Devo mettermi a dieta anch’io “
L’ex grasso lo guarderà e penserà che se un tempo fosse stato come lui non avrebbe mai fatto nulla per cambiare il suo aspetto.
Una persona che è stata grassa, quando si mette davanti allo specchio, continua a vedersi grassa, ha di se un’immagine distorta, come se si trovasse davanti ad uno specchio convesso, una deformazione che è dentro di se e lo accompagnerà per sempre.