Mura senza tempo sussurrano dentro acque sorde. Fiotti di luce invadono pareti, che raccontano storie di trionfi di patrie e disfatte di uomini: sempre vere, mai sincere. La bellezza è scaraventata nel riflesso liquido, la verità è protetta nei meandri.
Se c'è una cosa che si rende detestabile più che mai in questi tempi è l'ipocrisia.
Ne vediamo a fiumi intorno a noi, scritta sui giornali, proiettata sugli schermi televisivi e affissa sui muri. La vediamo, la tocchiamo, ce ne vestiamo, la mangiamo e, quel che è peggio, la digeriamo pure. Mi chiedo che senso abbia istituire "la giornata del..." ad ogni piè sospinto, per qualsiasi argomento che provochi fastidio, dolore o, peggio, lutto.
Per tutte le cose che sono causa di odio, dolore, pena e pietà è stata istituita "la giornata del...".
Si vuole, dicono, "sensibilizzare" le coscienze alle piaghe che affliggono la nostra cosiddetta "civiltà", ma a me sembra che i risultati di tale "sensibilizzazione" portino effetti del tutto opposti a quelli degli intenti dichiarati: a tal punto che si direbbe che gli intenti non siano affatto quelli, per l'appunto, dichiarati, ma quelli, deleteri, che fanno sì che ogni anno ci si debba ritrovare a ribadire statistiche e numeri che dicono chiaramente che "la giornata del...", celebrata lo scorso anno, non ha migliorato nulla, e questo nella migliore delle ipotesi, ma in compenso aumentano ogni volta di più rabbie e rancori. Oggi, per esempio, si celebra la "giornata contro violenza alle donne". Da non so quanti anni la si celebra, ma voi credete che sui giornali di domani non troverete qualche trafiletto, se non addirittura titoli su più colonne che raccontino di qualche stupro, qualche omicidio o qualche sopruso perpetrato verso donne di qualsivoglia età? Oppure credete che da domani, per esempio, qualche direttore di giornale (magari proprio uno di quelli che oggi dicono di mettere all'indice la violenza alle donne) tratterà una sua dipendente in maniera più equa rispetto al di lei collega maschio, fino a privarsi di una pur modesta quota dei suoi preziosi, sudatissimi e mai abbastanza cospicui introiti? O, ancora, pensate che lo stesso direttore desisterà dallo "sbirciare" in modo becero e concupiscente tra le pieghe e gli orli della minigonna di ordinanza che indossa la sua avvenente segretaria?
Uso l'esempio del direttore di giornale solo per evidenziare l'ipocrisia corrente, ma è fin troppo ovvio che l'esempio si estende ben al di là dei locali dove si propagano le campagne della "giornata del...".
Ma dalle più alte sfere ai più bassi fondi, quel che conta è che si sia convinti che "la giornata del..." è importante e che quindi, per oggi, si debba parlare della violenza alle donne.
Va bene, ci sto, parliamone. Ma voglio farlo un po' a modo mio.
A testimonianza del fatto che il problema della violenza alle donne è qualcosa di molto antico e molto più profondo di quanto una semplice e innocua "giornata del..." possa concepire, mi rivolgerò al Sommo Poeta in persona, pescando dal suo infinito serbatoio di Amore e Saggezza, estraendone la storia di Piccarda Donati, vissuta nella Firenze di fine duecento.
Chi era costei? Beh, Piccarda era una forza della natura; a 15 anni era la più bella ragazza di Firenze, la più ambita futura moglie, perchè era di assai ricca e nobile famiglia, quella che poteva avere tutto. Fama, lusso, onori e riverenze: lei, diversamente da qualsiasi altra donna del suo tempo (ma anche di altri tempi: attuali, recenti o antichi che siano) non doveva fare assolutamente nulla per ottenere tutte queste cose ma erano "tutte queste cose" che andavano da lei, spontaneamente, come farfalle posate su un fiore. Una sola cosa era a lei richiesta: un sì.
Non un "sì" qualsiasi, ovviamente, ma un Sì nuziale. Per lei, il fratello Corso Donati aveva organizzato il matrimonio del secolo, col ricchissimo Rossellino della Tosa, importante esponente politico dell'epoca. Piccarda, però, non era solo bellissima e ricca, ma possedeva anche un qualcosa che non era previsto possedesse una giovane fanciulla di quel tempo: Piccarda possedeva, incredibilmente, una libera volontà propria. Aveva dei desideri, dei progetti su se stessa che non erano, per così dire, in sintonia con quelli della sua famiglia. Del matrimonio per lei organizzato non voleva saperne, e non era, a quanto pare, un veto sullo sposo prescelto dal fratello, ma proprio un veto a prescindere.
Il suo desiderio era quello di sposarsi con la personalità che per lei era la più importante non solo di Firenze, dell'Italia o del mondo; ma quella più importante dell'universo e che lei amava davvero: il Signore Iddio.
Piccarda si fece monaca, nel convento fiorentino delle Clarisse. E qui subentrano i soprusi e le violenze: il fratello Corso, ovviamente, non accettò la cosa, o meglio, l'altrui volontà. Si organizzò, fece rapire Piccarda dal convento e la diede in sposa al suo prescelto. La leggenda poi vuole che Piccarda, sottomessasi infine alla superiortà della forza violenta del fratello, si ammalò di lebbra, morendone prima della "consumazione" del matrimonio. Ma non si è certi che si tratti davvero di leggenda, alcuni pensano che si tratti di storia vera fatta opportunamente passare per mito: l'ipocrisia, del resto, non è una "conquista" poi così recente.
Pensate ora se il caso di Piccarda si riproponesse al giorno d'oggi: quante pagine di giornali, servizi televisivi, programmi pomeridiani, plastici vespiani e altre diavolerie verrebbero fuori.
Anzichè "giornata della violenza alle donne", oggi sarebbe il "Piccarda day" in tutto il mondo.
E tutto, ovviamente, sarebbe incentrato sulla violenza, sul sopruso, sul sangue e sul dolore.
Ma visto che a raccontarci questa storia è stato Dante, forse sarebbe opportuno vedere cosa ne pensava lui dell' "Affaire Piccarda".
Nel suo mirabile e mirabolante viaggio ultramondano, il Sommo Poeta e Sommo Padre di tutti noi, trova Piccarda, manco a dirlo, nel Paradiso. Ma c'è un punto da non trascurare. Non è che per il fatto di essere in Paradiso, un beato sia qualcuno che in vita è stato, per così dire, "perfetto" in ogni cosa, come ci si potrebbe aspettare. Tra i beati che si incontrano nei diversi "cieli", infatti, si trovano personaggi che qualche "peccattuccio" ce l'hanno.
Il caso di Piccarda è particolare: Dante, che a quanto pare l'aveva conosciuta in vita, la trova in Paradiso nella "spera più tarda", cioè nel punto del paradiso più lontano dalle massime beatitudini; questo perchè Piccarda si trova tra quei beati che non hanno tenuto fede fino in fondo ai propri propositi; insomma, beata sì, ma penalizzata rispetto ad altri più vicini alle beatitudini più alte:
"E questa sorte che par giù cotanto
però n'è data, perchè fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto". - Paradiso III (54/57)
Cosa significa? Che Dante la rimprovera per non aver ammazzato il fratello quando l'ha rapita? Dante è un omofobo e odia le donne vittime di violenza? Niente di tutto questo.
Piccarda è beata, in Paradiso, sa che ha fatto in vita ciò che poteva, ma dove si trova ora ha acquisito quella consapevolezza che in vita non poteva avere: ha ceduto perchè si è comportata da vittima, perchè alla fine ha recitato quel ruolo per cui era stata educata: non poteva far altro che quello, quindi non può essere colpevolizzata in alcun modo, ma ora, da lassù, sta suggerendo ai "viventi" che fin che ci si considera "vittime" non si potrà far altro che trovare "carnefici", i quali faranno in modo che siano "negletti li nostri voti".
E, ovviamente, Piccarda non parla solamente alle donne vittime di violenza, ma parla a tutti; ci suggerisce di uscire dal malefico dualismo "vittima/carnefice", in cui è previsto che vinca sempre il carnefice e che la vittima immancabilmente soccomba.
Non so se voi ve ne accorgete, ma quando si celebra qualsiasi "giornata del..." c'è sempre in agguato il giochino della vittima/carnefice.
Fateci caso, poi vedete voi se non sia il caso di istituire anche il
Nella prima parte si accennava al fatto
che oggi non possiamo più disporre pienamente delle “libertà”
che fino a pochi mesi fa eravamo “convinti di possedere”. Si
potrebbe esprimere più precisamente il concetto asserendo che da
quando ci hanno imposto il famigerato lockdown non ci sentiamo più
“liberi”. In pratica, ci stiamo accorgendo (più o meno
inconsciamente) che in realtà non siamo stati mai veramente in
possesso delle nostre individuali e fondamentali “libertà”,
perchè se queste ci possono essere tolte dall'oggi al domani da
altrui decreto, significa che non sono mai state nostre, e questo
indipendentemente dal fatto che i decreti siano da ritenersi “giusti”
o “sbagliati”.
Certo, il concetto di “libertà” è talmente
ampio e dispersivo nei significati che gli si possono attribuire, che
è impensabile definirlo in poche righe; lascerei che siano filosofi
di professione e fama ad estrinsecarne i più profondi contenuti, io
mi limito a mettere la parola “libertà” tra virgolette, così da
lasciare, chiunque lo voglia, “libero” di dargli il significato
che preferisce; tanto, visti i tempi, la “libertà” è talmente
appiattita che praticamente nessuno può davvero travisarne il
significato corrente.
Ma se sappiamo a chi e a cosa
attribuire le attuali privazioni di “libertà”, a chi e a cosa
dobbiamo attribuire la mancanza di “libertà” che già avevamo in
passato?
C'è chi le chiama “forme/pensiero”
o “eggregore”, altri li chiamano “demoni”, altri ancora, meno
esotericamente, lo chiamano “conformismo”; qualcuno la vede come
conseguenza del consumismo, di cui è intrisa “l'anima” del
nostro tempo, altri lo concepiscono come un effetto collaterale
indesiderato (ma neanche tanto) del pur necessario “sviluppo
economico” (ma fino a quando si potrà mai “sviluppare” questa
“economia”?). Fatto sta che le minacce alla “libertà” tutti
le vedevano, ma nessuno se ne è mai accorto. Solo oggi non ci
sentiamo più “liberi”.
Questo è un mio ricordo che risale a
circa cinque anni fa.
“Vagavo nel nulla, cercando il tutto,
come sempre.
Stavolta, però, ho provato a cercarlo
nell'ampia metratura di un supermercato: ero convinto che a casa mancasse qualcosa per la cena, ma appena sono entrato mi sono
ricordato che la dispensa era piena di cose che potevano risolvere il
problema della cena. Ma ero già entrato, non mi andava di uscire dal
nulla con nulla. Quindi ho cominciato a guardare i prodotti, con la
speranza di trovare qualcosa che mi coinvolgesse. Al reparto frutta e
verdura, tra melanzane dalle dimensioni di angurie e carciofi che
sembravano tristi come salici piangenti, ho trovato un "signora
mia, ha visto come sono aumentate le zucchine? ... no, non intendo la
loro taglia, ma il prezzo" cui ha ribattuto un "ha fatto
bene a dirlo, perchè 3 euro al chilo per delle cucurbitacee verdi,
infondo, sono troppe. Ma si sposti, stia attenta all'extracomunitario
di colore che la sta per urtare col carrello: è così pieno che non
vede dove sta andando e se la urta le potrebbe scalfire il visone...
naturale, pelo folto, non è vero?".
Scappo disperato al reparto biscotti, e
mi imbatto in un "beh, quasi quasi mi compro sei pacchi di
frollini del porcile azzurro. Legga qui: privi di lattosio, glucosio,
ambrosio, destrosio, sinistrosio, simposio e Niccolò Carosio; adatti
per chi soffre di stipsi, pepsi, frizzi e lazzi. C'è in omaggio
anche la foto di Craxi. Che ne dice lei?". Non mi capacito che
quel signore, avvolto e sigillato nel suo loden, chieda proprio a me
un parere su una decisione così vitale per lui. Mi faccio forza e
dico: "Quaxi, quaxi...".
Comincio a sudare, proprio quando mi
avvicino al reparto surgelati, dove, quasi aspettasse il mio arrivo,
una vecchia bretone con un cappello e un ombrello di carta di riso e
canna di bambù, quasi mi salta negli occhi con un "E' dolce ma
magro, è squisito e non farlocco. Che cos'è?". E io "Certo,
non son sciocco, se affermo, deciso, ch'è il suo nuovo conogelato al
cocco, della nota marca 'quel che natura crea io non tocco' ".
La vecchia bretone, entusiasta della mia pronta risposta, è colta da
delirio di felicità e lancia con forza in alto il suo ombrello che
ricadendo a punta in giù va a conficcarsi proprio dentro un
passeggino spinto distrattamente da una signora truccatissima
taccododici, più intenta a conversare con la promoter del nuovo
rossetto Labbrad'or.
Io mi sento in trappola. Da una cella
frigorifera estraggo a sorte una scatolina di basilico tritato
surgelato e cerco di fuggire verso la cassa, che è a circa venti
metri da me, ma dopo due metri mi spiaccico contro la fila di gente
che aspetta di saldare il conto della spesa.
Diciotto metri di fila o spaghetti al
pomodoro senza basilico? Ecchecazz... piuttosto il digiuno.
Meglio il nulla al tutto. Soprattutto
se il tutto è nulla.”
Visti i tempi assurdi che
stiamo attraversando, nessuna citazione meglio di questa può
descrivere a fondo lo scoramento generale che li caratterizza.
Eppure, anche se attaccati
come siamo al momento attuale proviamo una certa sofferenza, calarsi
nel ricordo (che in questo caso non deve essere necessariamente
troppo indietro nel tempo) è una tentazione quasi irresistibile.
La rabbia che sentiamo
quando pensiamo a qualche mese fa, quando potevamo disporre di tutte
le “libertà” che eravamo convinti di possedere, cozza
violentemente contro la dolcezza del ricordo di un caffè o un
aperitivo preso al bar in compagnia di amici.
Il risultato di tale scontro
può avere esiti, in linea di massima, devastanti o costruttivi: in
pratica, o ci lasciamo devastare dalla rabbia, con pessime
ripercussioni sulla psiche e quindi sulla salute, oppure possiamo
riflettere, mettere in discussione il tipo di approccio che abbiamo
con la realtà, e in definitiva entrare in contatto con noi
stessi, allo scopo di conoscerci meglio; il succo dell'introspezione,
insomma, per quanto si possa trattare di una introspezione
superficiale.
Cercando proprio di
perseguire questo umile scopo, ho provato a ripercorrere all'indietro
le mie riflessioni, quelle che avevo scritto non moltissimo tempo fa
sul mio “profilo social”. Ciò che, in linea di
massima, mi è balzato all'occhio è il paradosso.
E', in effetti,
l'atteggiamento mentale, l'approccio psicologico che, stranamente, è
tale quale a quello che domina lo stato attuale.
Parlo per me, certo, ma
credo di non essere l'unico a constatare che così come oggi non
riusciamo a tollerare la situazione che stiamo vivendo, allo stesso
modo, solo pochi anni fa e non certo in un'altra epoca, eravamo
intolleranti verso cose, fatti, persone e situazioni che vivevamo
allora.
L'unica differenza è che il disagio di oggi è molto più
amplificato rispetto ad allora; ed è per questo che ci sentiamo quasi spinti
oltre i nostri limiti di sopportazione; ma se fossimo sinceri con noi
stessi, dovremmo ammettere che il disagio di oggi non è altro che il
“raccolto”, il frutto della semina fatta su quel terreno fertile che
era il disagio di ieri.
Forse, chissà, esaminandoci
meglio, dovremmo considerare altre “sementi” per i futuri
raccolti, ma questa è solo una mia considerazione personale,
ovviamente.
Ma iniziamo la rapsodia dei
ricordi. Circa tre anni fa, i media (i quotidiani in primis)
lanciavano le loro campagne di sdegno contro le numerose violenze
carnali che avevano deciso di mettere in prima pagina. Non che le
violenze carnali (crimine tra i più infami) mancassero alle cronache
di allora (di ogni tempo, ahimè, si dovrebbe dire), è solo che, evidentemente, avevano deciso di usarle come strumento catartico con lo scopo di
diffondere il loro “oro nero”: l'odio.
Questo, di seguito, il mio
“ricordo” di tre anni fa:
“Vagavo nel nulla,
cercando il tutto. Addirittura l'agognavo mentre, seduto ad un tavolo
del dehors di un bar di industriata provincia, di mattina presto, in
una stagione che dovrebbe essere l'autunno, sorseggiavo un caffè.
La caratteristica del posto
è che chi lo abita non desidera stare tranquillo, e se la giornata è
appena iniziata, il canto del gallo che dovrebbe essere l'inno alla
natura del posto, è soffocato dalle voci alte ed agitate di chi
scartabella i quotidiani freschi di stampa che col loro fruscio fanno
il coro col tintinnio delle tazzine percosse dai cucchiaini che,
invano, mescolano lo zucchero nel caffè.
Non può mai essere dolce il
caffè di chi legge il giornale la mattina da queste parti; non se le
notizie sono tali da far travasare la bile a chi le legge; non se chi
le legge non ha sufficiente memoria da ricordare che tali notizie
sono il ricapitolarsi di fatti che sono sempre successi. Così il
lettore crede che le violenze carnali, di cui i giornali celebrano il
revival in questo periodo, siano un male recentissimo importato da
paesi "sottosviluppati", e si indigna, quasi compiaciuto di
aver riconosciuto l'origine e gli autori delle schifose malefatte.
Un'indignazione che sentono come necessaria, e che ogni mattina viene
celebrata allo stesso modo, o per questo o per altro scempio
raccontato dai magici fogli di carta che, imperterriti, continuano i
loro duetti con tazzine e cucchiaini, e che raccontano "tutto e
nulla"; basta crederci.
E' così che tanto livore e
rabbia salgono come nebbia e si confondono con la nebbia degli
scarichi delle auto che già cominciano a rumoreggiare per le strade,
facendo tossire persino i galli che, ahimè, debbon tacere.
Assisto a tutto questo tra
il divertito e l'attonito, e mi basta chiudere per un istante gli
occhi per vedermi altrove; magari a Paris, in cima alla scalinata di
Montmartre, in una fredda e uggiosa sera invernale, da dove ammiro
una metropoli del tutto indifferente persino a sè stessa: alle
spalle la famosa basilica, poco sotto l'arcana giostra con cavalli
bianchi, ormai inoperosa, e più sotto la vita notturna Parigina, col
suo artistico brulicare di personaggi multicolori; e una musica che
sale con la bruma.
Un pallido e beffardo jazz, senza tempo nè luogo.
Da tutto a nulla non c'è
distanza, non c'è sforzo.
In mezzo alla pianura, una vaga foschia cancella il disegno di remoti monti. E la Terra sembra più enorme: pare gonfiare il ventre in uno sbadiglio; batte le sue palpebre, mentre dalle narici esala dolce fumo di sterpaglie brucianti: il suo perpetuo aroma, ancestrale, inebriante. Un Sole morente dipinge con forza colori tenui, sopra una tela di nuvole: la sua Promessa di Resurrezione. Mentre io cammino su questa Terra, osservo il suo passo, e guardo il mio respiro.
Tutti invitati stasera, anzi stanotte, all'appuntamento più "in" dell'anno.
Il Gran Gala a stelle e strisce che assegnerà il titolo di "Padrone del Mondo" al vincitore.
In lizza i due campioni di razza (e sappiamo tutti che razza di...) leader dei due opposti schieramenti "dem" e "rep".
Il primo, lo sfidante, è un gagliardissimo omino fatto tutto di plastica, erede di una lunghissima dinastia di presidenti che dal 1964 al 2016 ha dominato... ma che dico l'America, ma che dico le due Americhe, ma che dico il mondo, ma addirittura il cosmo; nell'ordine si sono avvicendati: Lyndon Johnson, Richard Nixon, Jimmy Carter, Ronald Reagan, George Bush Sr., George Clinton, George "Dabliù" Bush jr. e Barack Obama. L'omino promette che sarà bravissimo come loro, che sono tutti buoni e bravi, che amano la pace e non fanno mai la guerra, a meno che non serva alla (loro) democrazia
Il secondo, detentore del titolo, omino di plastica anche lui, ma più corpulento e col ciuffone rosso, inventore del nuovo filone "il mondo è un reality show" non è erede di nessuno, ma tanti (e tante, soprattutto) si azzufferanno per la sua eredità costruita con scrupolo per anni e anni di fiction su fiction.
Durante i quattro anni del suo mandato, a parte propagare odio nel paese che dice di voler far tornare grande, non ha combinato un emerito cxxxo, ma in compenso ha inventato lo show "guarda anche tu cosa ti combina il deep state", di cui è non solo autore e regista, ma anche protagonista (anche se gli piace mascherarsi e farsi chiamare qanon).
Solo per questo colpo di genio, a cui hanno creduto parecchi individui in tutto il mondo, egli parte da favorito, infatti i sondaggi lo danno in svantaggio, come quattro anni fa quando vinse.
Siore e siori, non potete mancare; sarà uno spettacolo incredibile, che in questi tempi di noia è proprio quello che ci vuole; le opposte tifoserie sono già schierate e nella spasimante attesa si lanciano strali e dardi come non si era mai visto in passato; mentre qualche fan di qanon incita tutti a sgranare rosari perchè si confermi il vincitore di quattro anni fa (affinchè l'odio non solo razziale trionfi e si propaghi ulteriormente), dalla curva dei tifosi opposta, la stampa "perbene" e perbenista, all'unisono, non fa che incitare il pubblico a suon di: cattivo, maleducato e persino "negazionista" il detentore del titolo, il nostro omino di plastica, invece, è buono e bello.
Venite, tutti voi che pensate che domani con un nuovo presidente USA(to) il mondo sarà migliore, voi che pensate che quella di stanotte sia la sfida finale tra "il bene e il male", l'importante è che crediate che chi vince cambierà le cose che vi hanno insegnato ad odiare; e non importa se il vostro beniamino perderà o vincerà, tanto si replica tra quattro anni, come alle olimpiadi.