Chi ha più o meno la mia età sa di che cosa parlo.
A quel tempo il mondo era completamente
selvaggio e addirittura si credeva “libero”.
Si veniva dagli anni cosiddetti “di
piombo” e ci si dirigeva assai inconsapevolmente verso gli anni del
cosiddetto “riflusso”.
Ma noi che allora avevamo quasi
vent'anni, come in genere fanno i ragazzi di ogni tempo, non ci
occupavamo molto del futuro, ma godevamo i succosi frutti del “qui
ed ora”. Ci divertivamo con assai poco, mentre sui giornali si leggeva di
generali statunitensi rapiti e poi, diversamente dagli statisti
nostrani, ritrovati nelle mani degli stessi terroristi e liberati.
Si leggeva di banchieri bancarottieri
piduisti e filovaticani “suicidatisi” in posti impossibili e noi
uscivamo la sera a mangiare la pizza e a ballare.
D'inverno si studiava (poco a dire il
vero) e si amava la musica: rock, discomusic, punk e soul erano i
generi preferiti; discutevamo tra noi su quale fosse fra questi il
genere più “giusto”, mentre si discuteva sempre meno di “destra”
o di “sinistra”. D'estate, invece, si rimediava qualche lavoro
stagionale, mensile o bimestrale, che giustificava le vacanze
d'agosto e le successive invernali: era piuttosto facile trovare
lavoro a quell'epoca.
Poi (ma mica tanto poi) noi ragazzi
pensavamo molto alle ragazze, le quali, con abilità tutta femminile,
davano l'idea di non pensare a noi maschietti, ma era solo un trucco.
Un gioco antico le cui regole erano note solo alle ragazze e che
serviva a far sembrare la conquista un evento epocale per noi ignari
ragazzi, che ci cascavamo sempre: era il “tempo delle mele”, il
tempo dei grandi amori che duravano poco, fuochi che infiammavano
sogni o bruciavano speranze, ma entusiasmavano sempre.
Ecco, l'entusiasmo dominava quei tempi
e chi può ricordarseli non lo potrebbe mai negare; e quando si parla
di entusiasmo in generale, a un italiano medio (ma anche no) viene in
mente il calcio.
Il 1982 era l'anno dei mondiali di
Spagna, e quella sfrenata passione che pervade individui di ogni
nazione, razza, religione e ceto sociale era all'apice. Principale
nutrimento del demone dei nostri tempi denominato “panem et
circenses”, il calcio, da parecchi decenni, ha anche la funzione
non trascurabile di catalizzatore di spiriti nazionalistici perduti o
mal assemblati, come nel caso del nostro travagliatissimo paese, che
fino ad allora era considerato “provinciale” rispetto a potenze
come Francia, Inghilterra e soprattutto Germania, vere e proprie
“locomotive” trainanti dello spirito dell'Europa che all'epoca si
stava ancora formando.
Provinciali eravamo e da provinciali
cominciammo quel mundial. Passammo la prima fase con grande fatica
contro avversari ritenuti assai più “provinciali” di noi. Il
gioco e i risultati erano deludenti e assai al di sotto delle
aspettative. Se eravamo quelli visti fin lì, c'era da aspettarsi il
peggio nella fase successiva contro i colossi Argentina e Brasile,
rispettivamente campioni in carica il primo e strafavorita per il
successo finale il secondo. Quello che impressionava più di ogni
altra cosa, nessuno se lo può dimenticare, era l'acredine con la
quale la stampa e le tv nazionali si scagliavano contro i giocatori: si
raccontava, specialmente sui quotidiani specializzati, di rivolte
della squadra conto il tecnico Bearzot, di apatia, di odio
serpeggiante tra le fila della compagine e degli accompagnatori e
persino di una storia di omosessualità tra alcuni giocatori. Quelli
che dovevano difendere il nostro beneamato tricolore erano dipinti
come ricchi e strapagati parassiti che si arricchivano alle spalle
dell'umiliato popolo italiano. Incapaci dal primo all'ultimo, i
giocatori erano, a detta della stampa, totali delusioni, a cominciare
proprio da colui che doveva essere il nostro goleador: Paolo Rossi.
La squadra, dal canto suo, visto la
piega che gli eventi stavano prendendo, non si limitò a negare con
forza le insinuazioni dei pennivendoli, ma si chiuse in un
blindatissimo “silenzio stampa”, che li esponeva ulteriormente a
critiche e malignità che, comunque, non si placavano ma si
moltiplicavano.
Era in questo clima che noi spettatori
e tifosi ci accingevamo a sederci davanti alla tv per assistere alla
prima partita della seconda fase contro i “mostri” argentini che
schieravano, tra gli altri, un certo Diego Armando Maradona, già a
quei tempi a ragion veduta assurto al titolo di “pibe de oro”.
Già al termine del primo tempo, avere chiuso sul risultato di zero a zero, poteva essere considerato un successone. Poi, accadde quel che nessuno si aspettava:
Tardelli e Cabrini infilavano due volte la
porta avvesaria, e mentre noi increduli davanti allo schermo temevamo
la rimonta dei sudamericani, dalle inquadrature dei volti dei nostri
giocatori trapelava una tranquillità mista a grinta mai vista
fino a quel momento. Da lì in poi, fu un assalto alla porta di
Zoff, colto di sorpresa solo verso la fine da una punizione dal
limite battuta a tradimento dal grande Passarella. E Diego? Beh, un
Gentile mostruoso non gli ha praticamente mai fatto vedere palla per
tutta la partita.
Cosa stava succedendo? Battuti i
campioni uscenti? "Una botta di fortuna inaspettata", sottolineavano il
giorno dopo i giornalisti, presi evidentemente alla sprovvista:
"vedremo cosa succederà col Brasile tra pochi giorni".
Il Brasile: solo a nominarla la
nazionale verde-oro metteva i brividi. Se poi si vuole entrare nello
specifico e parlare dei giocatori, c'era di che agghiacciare. I
calciatori brasiliani, da sempre, hanno una caratteristica: a parte
il portiere, tutti potrebbero essere goleador. Il loro tasso di
classe è tale per cui potrebbero giocare tutti centravanti, anche i
terzini: basta vedere la formidabile nazionale vincitrice dei
mondiali del 1970 con sua maestà Pelè, per rendersene conto, ma
quella del 1982 era, se possibile, ancora più formidabile: Zico,
Falcao, Socrates, Eder, Junior, Cerezo erano solo i sei undicesimi
della squadra, ma avrebbero fatto impazzire le migliori difese anche
se gli altri cinque giocatori fossero stati dei bambini.
Consapevoli di ciò, noi spettatori e
tifosi ci accingevamo a sederci davanti alla tv per assistere a
quello che avrebbe dovuto essere il supplizio di una squadra, la
nostra, ancora in attesa di colui che avrebbe dovuto essere il nostro
goleador, a secco anche contro l'Argentina, bersaglio di ulteriori
critiche, di accuse di totale incapacità e del quale si erano ormai
perse le tracce: Paolo Rossi.
Beh, non la farò tanto lunga, come è
andata lo sanno tutti: la testina e il piedino di colui che da quel
giorno in poi sarebbe diventato “Pablito”, il futuro
capocannoniere del mundial, Pallone d'Oro e uno dei più grandi goleador di sempre,
gonfiarono per tre volte quella rete che era considerata quasi
inviolabile e divennero storia.
Battemmo i mostri sacri brasiliani
grazie ad un vituperato e fino a poco prima considerato incapace,
mangiapane a tradimento e sospetto omosessuale (grave colpa per la
bigotteria ancora strisciante in una ancora cattolicissima Italia).
Ma il successo di Paolo Rossi e della
nazionale azzurra non si limitò all'ambito puramente sportivo.
Eh
sì, perchè noi spettatori e tifosi impazzimmo di entusiasmo e ci
riversammo per le strade di tutte le città, i paesi e le frazioni di
paese di tutta Italia a festeggiare: tutti, o quasi, gridavamo di
gioia come non era mai successo: ci abbracciavamo, anche tra
sconosciuti, perchè avevamo scoperto di essere tutti della stessa
famiglia: quella italiana.
Qualcuno, più anziano di me, mi fece
notare che era dai tempi della liberazione che non si vedevano scene
del genere e nonostante si trattasse di un avvenimento di portata infinitamente
inferiore a quello del 1945, lo spirito sembrava quasi lo stesso.
Spirito nuovo, puro e gioioso per noi ragazzi.
Ma quello che faceva riflettere, di
questo spirito, era il fatto che era nato in maniera inaspettata,
quasi dal nulla: quel nulla dal quale sembrava risorta quella
“nullità” che era considerato il Pablito nazionale. Paolo Rossi
era diventato un simbolo che dimostrava come si può diventare eroi
in ogni momento, che si può sempre risorgere dalle proprie ceneri:
come la fenice, come solo un italiano è capace di fare.
I giorni successivi ci condussero al
trionfo finale, nel quale abbiamo stracciato le temerarie velleità
dell'eterno rivale sportivo e non, quella Germania che ci faceva
ancor più paura, se possibile, dei fuoriclasse brasiliani: coi
tedeschi era una questione d'onore più che di sport, ed avemmo la
meglio.
Che gioia. Che tripudio. Che Spirito. Eravamo tutti dei
“Pablito” in fìeri, ed Italiani come avevamo dimenticato di
essere.
Ora son passati quasi quarant'anni, e
tante altre cose sono passate: il mondo è completamente cambiato,
anche se il calcio nutre ancora abbondantemente quel demone del
“panem et circenses”, e anche se tu hai deciso di lasciarci,
caro Pablito, il simbolo che eri diventato viene ancora custodito nei
cuori di quelli che l'hanno visto nascere.
Un simbolo di come sappiamo, possiamo e
forse dobbiamo essere.
Grazie, Pablito, fai buon viaggio.💓 Marco Bertelli