venerdì 11 dicembre 2020

1982

 


Chi ha più o meno la mia età sa di che cosa parlo.

A quel tempo il mondo era completamente selvaggio e addirittura si credeva “libero”.
Si veniva dagli anni cosiddetti “di piombo” e ci si dirigeva assai inconsapevolmente verso gli anni del cosiddetto “riflusso”.
Ma noi che allora avevamo quasi vent'anni, come in genere fanno i ragazzi di ogni tempo, non ci occupavamo molto del futuro, ma godevamo i succosi frutti del “qui ed ora”. Ci divertivamo con assai poco, mentre sui giornali si leggeva di generali statunitensi rapiti e poi, diversamente dagli statisti nostrani, ritrovati nelle mani degli stessi terroristi e liberati.
Si leggeva di banchieri bancarottieri piduisti e filovaticani “suicidatisi” in posti impossibili e noi uscivamo la sera a mangiare la pizza e a ballare.
D'inverno si studiava (poco a dire il vero) e si amava la musica: rock, discomusic, punk e soul erano i generi preferiti; discutevamo tra noi su quale fosse fra questi il genere più “giusto”, mentre si discuteva sempre meno di “destra” o di “sinistra”. D'estate, invece, si rimediava qualche lavoro stagionale, mensile o bimestrale, che giustificava le vacanze d'agosto e le successive invernali: era piuttosto facile trovare lavoro a quell'epoca.
Poi (ma mica tanto poi) noi ragazzi pensavamo molto alle ragazze, le quali, con abilità tutta femminile, davano l'idea di non pensare a noi maschietti, ma era solo un trucco. Un gioco antico le cui regole erano note solo alle ragazze e che serviva a far sembrare la conquista un evento epocale per noi ignari ragazzi, che ci cascavamo sempre: era il “tempo delle mele”, il tempo dei grandi amori che duravano poco, fuochi che infiammavano sogni o bruciavano speranze, ma entusiasmavano sempre.
Ecco, l'entusiasmo dominava quei tempi e chi può ricordarseli non lo potrebbe mai negare; e quando si parla di entusiasmo in generale, a un italiano medio (ma anche no) viene in mente il calcio.
Il 1982 era l'anno dei mondiali di Spagna, e quella sfrenata passione che pervade individui di ogni nazione, razza, religione e ceto sociale era all'apice. Principale nutrimento del demone dei nostri tempi denominato “panem et circenses”, il calcio, da parecchi decenni, ha anche la funzione non trascurabile di catalizzatore di spiriti nazionalistici perduti o mal assemblati, come nel caso del nostro travagliatissimo paese, che fino ad allora era considerato “provinciale” rispetto a potenze come Francia, Inghilterra e soprattutto Germania, vere e proprie “locomotive” trainanti dello spirito dell'Europa che all'epoca si stava ancora formando.
Provinciali eravamo e da provinciali cominciammo quel mundial. Passammo la prima fase con grande fatica contro avversari ritenuti assai più “provinciali” di noi. Il gioco e i risultati erano deludenti e assai al di sotto delle aspettative. Se eravamo quelli visti fin lì, c'era da aspettarsi il peggio nella fase successiva contro i colossi Argentina e Brasile, rispettivamente campioni in carica il primo e strafavorita per il successo finale il secondo. Quello che impressionava più di ogni altra cosa, nessuno se lo può dimenticare, era l'acredine con la quale la stampa e le tv nazionali si scagliavano contro i giocatori: si raccontava, specialmente sui quotidiani specializzati, di rivolte della squadra conto il tecnico Bearzot, di apatia, di odio serpeggiante tra le fila della compagine e degli accompagnatori e persino di una storia di omosessualità tra alcuni giocatori. Quelli che dovevano difendere il nostro beneamato tricolore erano dipinti come ricchi e strapagati parassiti che si arricchivano alle spalle dell'umiliato popolo italiano. Incapaci dal primo all'ultimo, i giocatori erano, a detta della stampa, totali delusioni, a cominciare proprio da colui che doveva essere il nostro goleador: Paolo Rossi.
La squadra, dal canto suo, visto la piega che gli eventi stavano prendendo, non si limitò a negare con forza le insinuazioni dei pennivendoli, ma si chiuse in un blindatissimo “silenzio stampa”, che li esponeva ulteriormente a critiche e malignità che, comunque, non si placavano ma si moltiplicavano.
Era in questo clima che noi spettatori e tifosi ci accingevamo a sederci davanti alla tv per assistere alla prima partita della seconda fase contro i “mostri” argentini che schieravano, tra gli altri, un certo Diego Armando Maradona, già a quei tempi a ragion veduta assurto al titolo di “pibe de oro”.
Già al termine del primo tempo, avere chiuso sul risultato di zero a zero, poteva essere considerato un successone. Poi, accadde quel che nessuno si aspettava: Tardelli e Cabrini infilavano due volte la porta avvesaria, e mentre noi increduli davanti allo schermo temevamo la rimonta dei sudamericani, dalle inquadrature dei volti dei nostri giocatori trapelava una tranquillità mista a grinta mai vista fino a quel momento. Da lì in poi, fu un assalto alla porta di Zoff, colto di sorpresa solo verso la fine da una punizione dal limite battuta a tradimento dal grande Passarella. E Diego? Beh, un Gentile mostruoso non gli ha praticamente mai fatto vedere palla per tutta la partita.
Cosa stava succedendo? Battuti i campioni uscenti? "Una botta di fortuna inaspettata", sottolineavano il giorno dopo i giornalisti, presi evidentemente alla sprovvista: "vedremo cosa succederà col Brasile tra pochi giorni".
Il Brasile: solo a nominarla la nazionale verde-oro metteva i brividi. Se poi si vuole entrare nello specifico e parlare dei giocatori, c'era di che agghiacciare. I calciatori brasiliani, da sempre, hanno una caratteristica: a parte il portiere, tutti potrebbero essere goleador. Il loro tasso di classe è tale per cui potrebbero giocare tutti centravanti, anche i terzini: basta vedere la formidabile nazionale vincitrice dei mondiali del 1970 con sua maestà Pelè, per rendersene conto, ma quella del 1982 era, se possibile, ancora più formidabile: Zico, Falcao, Socrates, Eder, Junior, Cerezo erano solo i sei undicesimi della squadra, ma avrebbero fatto impazzire le migliori difese anche se gli altri cinque giocatori fossero stati dei bambini.
Consapevoli di ciò, noi spettatori e tifosi ci accingevamo a sederci davanti alla tv per assistere a quello che avrebbe dovuto essere il supplizio di una squadra, la nostra, ancora in attesa di colui che avrebbe dovuto essere il nostro goleador, a secco anche contro l'Argentina, bersaglio di ulteriori critiche, di accuse di totale incapacità e del quale si erano ormai perse le tracce: Paolo Rossi.
Beh, non la farò tanto lunga, come è andata lo sanno tutti: la testina e il piedino di colui che da quel giorno in poi sarebbe diventato “Pablito”, il futuro capocannoniere del mundial, Pallone d'Oro e uno dei più grandi goleador di sempre, gonfiarono per tre volte quella rete che era considerata quasi inviolabile e divennero storia.
Battemmo i mostri sacri brasiliani grazie ad un vituperato e fino a poco prima considerato incapace, mangiapane a tradimento e sospetto omosessuale (grave colpa per la bigotteria ancora strisciante in una ancora cattolicissima Italia).
Ma il successo di Paolo Rossi e della nazionale azzurra non si limitò all'ambito puramente sportivo. 
Eh sì, perchè noi spettatori e tifosi impazzimmo di entusiasmo e ci riversammo per le strade di tutte le città, i paesi e le frazioni di paese di tutta Italia a festeggiare: tutti, o quasi, gridavamo di gioia come non era mai successo: ci abbracciavamo, anche tra sconosciuti, perchè avevamo scoperto di essere tutti della stessa famiglia: quella italiana.
Qualcuno, più anziano di me, mi fece notare che era dai tempi della liberazione che non si vedevano scene del genere e nonostante si trattasse di un avvenimento di portata infinitamente inferiore a quello del 1945, lo spirito sembrava quasi lo stesso. Spirito nuovo, puro e gioioso per noi ragazzi.
Ma quello che faceva riflettere, di questo spirito, era il fatto che era nato in maniera inaspettata, quasi dal nulla: quel nulla dal quale sembrava risorta quella “nullità” che era considerato il Pablito nazionale. Paolo Rossi era diventato un simbolo che dimostrava come si può diventare eroi in ogni momento, che si può sempre risorgere dalle proprie ceneri: come la fenice, come solo un italiano è capace di fare.
I giorni successivi ci condussero al trionfo finale, nel quale abbiamo stracciato le temerarie velleità dell'eterno rivale sportivo e non, quella Germania che ci faceva ancor più paura, se possibile, dei fuoriclasse brasiliani: coi tedeschi era una questione d'onore più che di sport, ed avemmo la meglio. 
Che gioia. Che tripudio. Che Spirito. Eravamo tutti dei “Pablito” in fìeri, ed Italiani come avevamo dimenticato di essere.
Ora son passati quasi quarant'anni, e tante altre cose sono passate: il mondo è completamente cambiato, anche se il calcio nutre ancora abbondantemente quel demone del “panem et circenses”, e anche se tu hai deciso di lasciarci, caro Pablito, il simbolo che eri diventato viene ancora custodito nei cuori di quelli che l'hanno visto nascere.
Un simbolo di come sappiamo, possiamo e forse dobbiamo essere.
Grazie, Pablito, fai buon viaggio.💓

 Marco Bertelli