mercoledì 30 gennaio 2013

Le Miroir (Lo specchio) - 1^ episodio: Il naufrago

Costa nord occidentale della Francia. Un mattino di aprile. Mentre altrove, in luoghi a me più familiari, il sole comincia ad intiepidire i volti e i cuori indifferenti di industriosi e industriati individui simili a me, qui sembra novembre inoltrato.
Vis-à-vis con l'Oceano, che in questa località diventa Stretto di Manica ma largo di spruzzi salati. Dalle scogliere che si intromettono tra le robuste onde, questi salgono a me come acqua che battezza a nuova Vita; accompagnati dal loro complice, un vento fresco e veloce che benevolmente scivola sul mio viso incastrato tra il grigio plumbeo del cielo che mi sovrasta e l'argento vivo dell'immensa distesa d'acqua che sta di fronte. Le scure nuvole di sopra corrono libere, sembrano inseguire le bianche onde di sotto. I Gabbiani, intonatissimi, compongono la loro melodia e il battito delle loro ali dona ritmo al tutto.
Il Sole, da dietro le quinte, osserva senza dir nulla, non è il suo show.
I miei occhi non vedono nessun umano intorno a se', né pensano di cercarne qualcuno.
Mi sento come se fossi l'unico/ultimo individuo della mia specie rimasto sul Pianeta, avvolto da una delle sue innumerevoli meraviglie che annullano il tempo. Che Bellezza, che Spettacolo!!!
Che ci faccio qui? Come ci sono arrivato? Cosa mi ci ha portato?
Domande oziose, inutili in questo momento.
Se per ottenere qualsiasi cosa ci affidassimo esclusivamente alla razionalità, ben difficilmente i risultati conseguiti corrisponderebbero all'intento iniziale, o meglio, a quello che la mente suppone lo sia. La mente vuole “fare”, presume di poter “fare”. Ma al massimo propone, mentre c'è qualcos'altro che dispone. Bene, quel qualcos'altro, ci si creda o no, convive con noi, dentro di noi, e nascosto da qualche parte aspetta di essere scoperto.
Questo pensiero che percorre come una di quelle nuvole la mia testa, racchiude in se' domanda e risposta, inizio ed epilogo di questa strana storia.

“Che ci faccio qui?”. A dire il vero, non è poi una domanda così inutile. Me la sono posta in un giorno di ordinaria provincia del nord Italia. In un posto qualsiasi, un bar, dove già dalle prime ore del mattino puoi leggere, se vuoi, contemporaneamente: i disastri nazional-popolari sui quotidiani freschi d'edicola, i fondi del caffè aggrappati al fondo della tazzina fresca di lavastoviglie e la ricerca di una motivazione plausibile per la nuova giornata, stampata a caratteri tipografici negli occhi dei clienti, che entrano alla spicciolata, freschi di sonno.
Soprattutto per i primi che entrano, non è per nulla facile trovare tale motivazione. Non la cercano negli occhi di chi prepara loro il caffè e gli serve sul piattino la brioche profumata di zucchero a velo e burro industriale, non la cercano nell'enorme specchio dietro il bar, dove si riflette la loro stessa immagine vista di sfuggita pochi minuti prima nel bagno di casa, neppure nelle indifferenze degli avventori “sconosciuti”, anche se già visti le mattine precedenti, intenti a farsi i fatti loro. Aspettano con ansia che la loro quotidiana motivazione entri dall'ingresso, sotto forma di un amico di quelli soliti, il quale ha il potere, semplicemente pronunciando un “ciao” o un “buongiorno” esattamente nello stesso modo di sempre, di ricordargli che la sua “motivazione odierna” è esattamente quella di ieri, ovvero riuscire a sottrarsi il più possibile alle insidie nascoste nelle incognite pieghe di una giornata in ufficio, in fabbrica o in altro luogo ove la solita routine e le lancette sempre troppo lente del giorno li condurranno a giusta sera, in balia di lancette fin troppo veloci, che li condurranno quasi senza capire come, l'indomani, di nuovo qui. L'amicale complicità che traspare da ogni loro discorso, si snoda sinuosa tra le maestose onde delle lamentele che si spostano freneticamente dal meteo, mai abbastanza aderente alla stagione in corso, ai comportamenti fastidiosi e stronzi di intollerabili colleghi d'ufficio o compagni di lavoro (non di rado originari di “latitudini diverse” da quella dove scorre il Po), vere piaghe cui nessuno trova mai rimedio efficace, non essendo in vigore nel nostro stato la pena capitale. Trovarsi la mattina al bar e dichiararsi d'accordo su ciò che va male, sono le fondamenta della casa che diverrà la loro giornata. Sono i veri e propri architetti della loro vita, e indipendentemente dal fatto che ne siano coscienti o no, sembrano proprio degli architetti soddisfatti. Tant'è vero che il giorno dopo sono di nuovo lì, a riprogettare una nuova costruzione, il più possibile identica a quella del giorno prima.
Osservandoli non posso che provare ammirazione. Non per le loro “costruzioni”, che comunque rispetto, ma per l'amore che ci mettono nel progettarle. Senza amore, amore vero, non costruisci nulla.
E' una cosa che a me manca, non lo nascondo. Non riesco a concepire progetti come i loro.
Osservandoli vedo me stesso, nel mio passato, quando la mia vita era uguale alla loro, fino al giorno in cui ho capito che non avrei potuto continuare ad essere come loro. Vedo la realizzazione da parte di altri, di un qualcosa che io non sono capace di realizzare.
Una vita “regolare”, con delle abitudini circoscritte all'interno di ben determinati schemi: il lavoro, la famiglia, la casa, le amicizie e via dicendo. Tutto questo, ad un certo punto della mia vita, mi è sembrato come un enorme mare in burrasca, un oceano nel quale io non sapevo più navigare, e mentre tanti natanti attorno a me proseguivano sulla loro rotta, io ho fatto del mio vascello una scialuppa e faticosamente ho cercato un'isoletta sulla quale approdare, tanto per asciugarmi un po', per riprendermi dallo spavento che mi era preso per paura di affogare in quelle acque agitate, nelle quali altri continuano a navigare, dimostrandosi sicuri della propria imbarcazione e fiduciosi che la rotta che tutti si affannano a seguire sia davvero la rotta giusta.
Nessuna recriminazione per il mio passato, nessuna invidia per il loro presente. Se io non avessi vissuto quel passato e se non mi fossi rifugiato sulla mia isoletta, ora non starei qui a scorgere, tra i meccanismi delle loro lamentele, la perfezione dell'amore che provano per il loro presente: ecco la riflessione del “naufrago” che io sono, fortunato di sentirsi al sicuro su un'isoletta sperduta dentro a un bar, in un giorno di ordinaria provincia, nel tiepido aprile del nord Italia.
Ma mentre gli “architetti” oggetto della mia bizzarra riflessione, a bordo del loro vascello, salpano per la loro giornata e lasciano il bar, io continuo a sentirmi “naufrago”. Allora, “che ci faccio qui?”.
Sarà il senso di separazione dal resto del mondo che tale riflessione provoca in me e a cui non trovo nessuna giustificazione plausibile, sarà l'aria di primavera che consiglia anche ai naufraghi di salpare comunque, non so che cos'è; ma oggi voglio trovare una rotta nuova. Lasciare la mia isoletta per vedere se posso tornare a navigare senza paura.
Per cominciare voglio cambiare posto. Parto per una grande città. Le metropoli del nord sono piene di naufraghi che trovano nuove rotte. A Milano ci sarà solo l'imbarazzo della scelta. 

(Fine primo episodio)

Marco Bertelli


giovedì 24 gennaio 2013

Barzellette






L'Italia è una Repubblica (per niente democratica) fondata sulla barzelletta.
A parte quanto scritto nella parentesi (considerazione personale), questa frase non è nuova. Molti comici di professione e alcuni dei cosiddetti “opinionisti” da carta stampata o da televisione, ne hanno fatto e ne fanno attualmente largo uso per apostrofare, ognuno a suo modo, la decadenza del nostro “bel paese”.
In effetti la barzelletta è un qualcosa che fa parte della nostra cultura da secoli, è una “disciplina” nella quale noi Italiani sappiamo eccellere anche fuori dai patrii confini.
La barzelletta, come tutte le discipline artistiche, ha sviluppato negli anni la sua evoluzione, di pari passo con l'evoluzione sociale. Penso a come la barzelletta era concepita qualche decennio fa da mostri sacri come, ad esempio, Gino Bramieri, Walter Chiari, Carlo Dapporto, e a come è diventata oggi trasportata da un Beppe Grillo (la cui ironia è cambiata molto nel tempo, e se prima la gente sapeva di cosa rideva, oggi a mio avviso non lo capisce più), per finire nelle capaci mani di un ex presidente del consiglio che ci ha davvero deliziato coi suoi pezzi d'autore. Cito a titolo di esempi, la fantastica barzelletta “i ristoranti pieni” (che ha debellato la crisi economica nel 2011), e l'inarrivabile “la nipote di Moubarak” (strepitoso successo parlamentare, nonché intricatissimo caso giudiziario).
E' interessante, secondo me, notare come sia cambiata nel tempo la reazione del pubblico a causa dell'evoluzione della barzelletta: ai tempi di Bramieri le risate erano assicurate, qualche smorfia cominciava a comparire sui sorrisi sbiaditi del pubblico quando Grillo le raccontava nelle sue tournèe teatrali (che non sono ancora finite), pochissimi ridono ogni volta che viene raccontata “la nipote di Moubarak” (strano, perchè a me sembra spassosissima).
In effetti ognuno ha un diverso senso dell'ironia. Io ho il mio.
La sapete l'ultima? Ci sono un fotografo, un pubblico ministero e un giornalista antimafia.
Il fotografo viene condannato, perchè ricatta i vip a cui scatta foto compromettenti. Fugge a bordo di una cinquecento e va in Portogallo, perchè ha paura del carcere, ma il navigatore satellitare della fiat gli scatta una foto compromettente e la manda all'interpol. Il fotografo si costituisce piangendo.
Il pubblico ministero fa un carrierone incredibile. Smantella traffici internazionali di droga, mette in galera boss della mafia del Brenta e della Magliana, smaschera reati sessuali in famiglie più o meno “perbene”. Poi, però, subisce anche lui come tanti gli effetti della crisi economica. Lo stipendio che percepisce, evidentemente, non gli basta più per i suoi “svaghi”. Decide così di sfruttare la sua posizione lavorativa per mantenere integro il suo conto corrente bancario. Lo beccano nel suo ufficio (andare in giro con la macchina, con quello che costa la benzina....) mentre riceve favori erotici in cambio di favori giudiziari a operatrici (la desinenza non è perfetta) del sesso. Viene rinchiuso nelle patrie galere dove probabilmente riprenderà le indagini sullo spaccio di droga, ma stavolta magari dovrà concedere, senza chiederlo, favori sessuali a persone che non sarà lui a scegliere. Beh, “la ruota gira” e girano anche i ruoli.
Il giornalista antimafia, invece, fa il suo lavoro. Solo quello. A dispetto degli schemi che seguono molti suoi stimati colleghi (osano chiamarsi così!), lui cerca i fatti. Probabilmente perchè crede che portandoli alla luce si possa far conoscere alla gente qualcosa di importante. A differenza dei suoi colleghi (!), lui non guarda in faccia a nessuno: si occupa di camorra e di mafia, quindi di mafiosi, di camorristi e di quello che fanno. La cosa non va affatto giù a coloro che sono oggetto dei suoi servizi. La vita di questo giornalista è in grave pericolo. Le forze dell'ordine gli forniscono una scorta. Un pugno di ragazzi addestrati per seguirlo e per proteggerlo da attentati e tentativi di omicidio. La sua vita è chiusa tra le sbarre di una decina di braccia nerborute, e si spera abbastanza forti da respingere attacchi omicidi. 
Stop. Fine della barzelletta.
Ah, non capite la battuta finale? Beh, in effetti non sono granchè bravo a raccontare barzellette, anche perchè se lo fossi potrei aspirare alla carica di presidente del consiglio. Comunque ve la spiego: tutti e tre ora sono in una prigione. Però solo i primi due potranno uscirne, o per evasione o perchè un giorno finiranno di scontare la loro pena, come è giusto che sia.
Il terzo non potrà mai uscirne, a meno che un attentato camorrista non lo “liberi”, e non credo che l'interessato se lo auguri. Ma la vera “ironia” sta nel fatto che l'unico dei tre che dalla galera non potrà mai uscire, è anche l'unico dei tre che non ha mai commesso nessun reato.
Beh, se non è una barzelletta questa...
Se in tutto ciò non trovate nulla di comico, vi capisco. Del resto, come si diceva prima, le barzellette di oggi non fanno più ridere come quelle di una volta. O magari siamo noi che non sappiamo più ridere, forse perchè ci sono troppi barzellettieri in giro. 
Nessuno bravo come il Gino Bramieri. 





Marco Bertelli


lunedì 14 gennaio 2013

Il giardino dei pensionati


La categoria dei pensionati, che molti pensano in Italia sia una specie in via di estinzione a causa di un welfare dagli sviluppi sempre più incerti, è invece viva e vegeta, variegata e variopinta.
L'icona classica del pensionato, diffusissima nelle città medio-grandi, è quella del rompicoglioni con cappotto grigio scuro e “borsalino” in testa, che, qual “bounty killer”, se ne va per cantieri stradali, già durante le primissime ore del mattino, ad impestare di commenti astrusi e consigli inopportuni lo stato d'animo, già di per se' tormentato, degli operai che faticosamente tentano di guadagnarsi a loro volta lo status di pensionato. Il proverbiale italico coraggio, che solo pochi decenni fa si realizzava nelle eroiche gesta di un Salvo d'Acquisto, o di migliaia di eroi partigiani che hanno sfidato il loro proprio destino per donarci quel suolo da calpestare dignitosamente che avremmo dovuto trattare come la nostra Patria, oggi si estrinseca nello sfidare roteanti badili di operai psicologicamente esausti, altrimenti operosi.
Esistono anche altri tipi pensionati, ovviamente, molto più rilassati e rilassanti. Affollano bar cittadini e osterie di provincia. Giocano a carte, alcuni a scacchi, e gustano il nettare di bacco.
Le colleghe signore sorseggiano caffettini e ingurgitano croissants, mentre a bassa voce squartano, quali sapienti macellaie, l'integrità morale delle persone che adorano invidiare. Regalano, insomma, scampoli di futuro da pensionato a gestori di locali pubblici e loro avventori in età da lavoro.
Il comun denominatore di tutte le sottocategorie di pensionato (ce ne sono altre, oltre a quelle di cui sopra), è il fatto che le persone che vi appartengono galleggiano, per così dire, in una sorta di limbo, una zona d'ombra schiacciata tra il presente e il passato, nella quale chi vi si trova non si riconosce apertamente in una prospettiva futura. E' come se si fosse eretto un muro in un giardino, che preclude la vista e di conseguenza l'accesso, ad una zona fino a ieri visibile ed accessibile, quell'orizzonte che si chiama futuro.
Non percependo come divieto questo muro, gli abitanti di questo giardino, o limbo che dir si voglia, fanno del loro meglio per “godersi” le pur ampie zone del posto in cui si trovano.
Il posto si chiama “passato”, e loro vivono di ciò che è passato ripetendone gesti, idee e abitudini.
C'è chi vede i pensionati come ignari topolini in trappola, c'è chi li vede invece come privilegiati che si godono la loro rendita mensile.
Ciò che a mio avviso la stragrande maggioranza delle persone non ancora pensionate sembra ignorare, è che di fatto, a parte la suddetta rendita mensile, non esiste praticamente nessuna differenza tra il loro status di persone contribuenti “attive”, e quello dei più o meno allegri arzilli anzianotti, quotidianamente affaccendati in attività pseudoricreative come quelle sopra descritte.
Psicologicamente ed intellettualmente non è rilevabile, a mio avviso, alcuna differenza nel modo di pensare la propria vita tra un trenta/quarantenne impegnato socialmente nel produrre e consumare, e un settanta/ottantenne impegnato socialmente nello stressare un qualsiasi operaio di cantiere stradale.
Anche l'aitante trenta/quarantenne medio, infatti, vive con la testa rivolta al passato.Nessuna indagine di mercato, nessun sondaggio demoscopico, per quanto recente e ben documentato, è in grado di dimostrare quanto personalmente sostengo.
A sostenerlo oltre ogni ragionevole dubbio, invece, sono i dati forniti dall'auditel.
Pare, infatti, che giovedi 10 gennaio scorso, su un canale televisivo pubblico, circa 9 (nove) milioni di persone abbiano assistito in collegamento “live” da non so quale osteria di non so quale località della nostra bella penisola, ad una accesa, viva (si fa per dire) discussione fra tre vecchi amici pensionati, che pare non si incontrassero da un pezzo.
C'erano il pensionato Santoro, dinosauro del piccolo schermo, il baby-pensionato Travaglio, che il notevole talento letterario di cui madre natura l'ha dotato ama usarlo come un boomerang, e infine il pensionato per eccellenza, proprietario di diversi altri “bar” simili a quello da cui è andato in onda “l'evento” e “utilizzatore finale” di tutti i commenti benevoli e (soprattutto) non, che, grazie appunto a 9 (nove) milioni di altri pensionati teleutenti, si sono sparsi nell'aere, andandosi a spiaccicare negli altri (non meno pensionati) mass media, non direttamente coinvolti, e cioè altri canali televisivi e stampa di ogni padrone.
I tre vecchi amici, ritrovatisi nello stesso bar dopo anni di finto (indiscutibilmente finto) odio a distanza, hanno inscenato, pare con notevole successo (9 -nove- milioni di tele pensionati davanti al video ad assistere) la vecchia pantomima della partita a briscola, anche se mancava il quarto.
Vecchie idee, vecchie sfide fra loro, vecchi ricordi, vecchi schemi di comportamento. Ripetuti. Sempre quelli, gli stessi da decenni. Sempre con lo stesso intento: far credere a chi guarda che sia meglio schierarsi da una parte piuttosto che dall'altra, perchè è in questo modo che i pensionati che guardano si sentono “vivi”.
Bisogna continuare a giocare alla stessa briscola, mantenendo ciascuno il proprio ruolo. Non importa vincere le partite a carte, al bar ci si va per stare in compagnia e passare il tempo così, come si addice ai veri pensionati, che nel limbo-giardino, dove non possono guardare al futuro a causa di quel muro che li schiaccia nel passato, devono continuare a sentirsi vivi, senza accorgersi di essere dei non-morti.

“Oste della malora, portami un altro fiasco di rosso, che se vinco questa partita, giuro sui miei nipoti che pago da bere a 9 (nove) milioni di pensionati!!!!”


Marco Bertelli





giovedì 10 gennaio 2013

Incipit

Kunta Kinte: chi è? Un personaggio di un romanzo storico basato su fatti reali, di Alex Haley, lo scrittore statunitense che narrò le “Radici” (così è il titolo del romanzo) della propria famiglia, estirpata dall'Africa nera nella seconda metà del diciottesimo secolo e portata a forza nel “nuovo mondo”, che gli uomini bianchi che provenivano dall'Europa stavano costruendo in America.
Kunta è nato libero, ma un giorno degli “alieni” con una pelle di un altro colore lo hanno reso schiavo.
Lui non concepiva l'idea che qualcuno potesse obbligarlo ad indossare catene che gli impedivano il libero uso del corpo, come la natura gli concesse dalla nascita, non sospettava minimamente che qualcuno potesse mai portarlo via dalla sua terra. Ma così accadde.
Lui provò in mille modi a distruggere le catene, ma non appena ci riusciva veniva preso e di nuovo incatenato. Scappava, ma veniva ripreso dai suoi aguzzini con la pelle bianca. Quello che per lui era il suo corpo, l'incarnazione del proprio se', per i bianchi era merce da vendere e da far lavorare in piantagioni di cotone.
Kunta era nato libero, sapeva di essere un uomo libero, ma dovette vivere da schiavo, procreare da schiavo, morire da schiavo. Su Eroi come lui fu fondata quella che noi oggi chiamiamo “America”, gli Stati Uniti d'America.

Questo blog non si occupa delle ingiustizie subite dai neri afro-americani nel corso degli ultimi secoli.
A dire il vero non si vorrebbe nemmeno occupare di ingiustizie in generale, perchè le “ingiustizie” non esistono se non si è schiavi.
Oggi, qui, nessuno crede di essere schiavo, ma tutti (o quasi) vedono ingiustizie attorno a se'.
Ci si crede liberi solo perchè non si indossano pesanti catene che costringono mani e piedi, ma ci si lamenta perchè ci si crede costretti a subire ingiustizie, che, come catene, ci impediscono di sentirci liberi.
Come gli schiavi, come Kunta, ripetiamo tutti i giorni gli stessi gesti perchè noi stessi ci sentiamo “costretti” a farlo, o perchè non sappiamo spezzare queste pesanti, invisibili catene.
Siamo schiavi, per lo più ignari della nostra condizione.

Oggi Kunta Kinte è tornato. Dalle imperscrutabili nebbie del non-tempo, la sua Anima è tornata a camminare su questa terra. Non cercate il suo volto, non lo riconoscereste. Non è più un nero africano, non indossa più catene a mani e piedi.
E' tornato perchè vuole ricominciare da dove aveva lasciato, per tornare ad essere ciò che è.
E' rinato da schiavo per ridiventare Uomo Libero.
Oggi ha capito che le catene non sono quelle che legano mani e piedi, ma sono nascoste dentro le profonde pieghe della mente. Nella nostra mente.
Kunta vuole strappare queste catene, distruggerle una volta per tutte.

Né torri di pietra, né mura di ottone battuto, né celle senz'aria, né possenti catene di ferro,
possono rinchiudere la Forza dello Spirito” - William Shakespeare.

Questo blog nasce con l'intento di migliorare l'umore di chi lo legge, ma anche un sorriso andrà benissimo. Grazie!!!

Marco Bertelli