mercoledì 31 dicembre 2014

L'Augurio

Quello che tutti chiamano "l'ultimo dell'anno", è come una medaglia: ha due facce.
Una rappresenta l'inganno, l'altra l'opportunità.

E' ingannevole ed ipocrita, a mio parere, diffondere l'idea che oggi "finisca un anno" e, allo scoccare della mezzanotte, ne cominci un altro. Nulla può finire se noi non lo vogliamo e di conseguenza nient'altro può cominciare senza che noi lo decidiamo.
Tutto ciò, ovviamente, può accadere (ed in realtà accade al di là della consapevolezza degli sciocchi) in qualsiasi momento, non necessariamente nella data stabilita da altri.
E' ingannevole, perchè il tempo non è altro che una convenzione alla quale più o meno tutti fanno riferimento, ma nessuno riesce a dimostrare che sia qualcosa di uguale per tutti, quindi "vero".
Ho passato momenti in posti di lavoro nei quali dovevo occuparmi di ripetere meccanicamente sempre quei gesti, cercando la sensazione dello scorrere del tempo; ma ogni volta che guardavo ciò che dovrebbe misurarlo, mi chiedevo come mai quell'orologio fosse così "fermo".
Ho trascorso giorni lieti, spensierati, in compagnia di belle persone, provando gioia, allegria e spensieratezza, e quando quei giorni sono finiti non me ne sono nemmeno accorto, quasi fossero passati dieci secondi.
E' altamente ipocrita, perchè quando si dice che "oggi finisce l'anno vecchio e domani comincia l'anno nuovo", si tenta di costringere le persone a fare "bilanci", ovvero a riesaminare il passato per detestarne le cose "disdicevoli", cercando di archiviarle nel cassetto segreto delle vergogne o, peggio ancora, in quello delle "sfighe", concedendo così al "caso" il potere assoluto sulla propria esistenza.
E' evidente a chiunque sano di mente che il passato non esiste più, ma ciononostante, quasi tutti si sentono spinti a farlo rivivere nel modo più stupido possibile, e cioè alimentando la paura che "quel passato" si ripeta. Beh, dovrebbe risultare chiaro a tutti che la paura, che sia di qualcosa che riteniamo importante o futile, non è la sensazione ideale nella quale trovarsi.
Per quanto mi riguarda, l'unico passato che vale la pena di far rivivere sarebbe quello di verdure cucinato da mia nonna; ma prima bisognerebbe far rivivere la nonna, e questo è attualmente impossibile agli umani, così com'è loro impossibile dimostrare che il tempo sia “vero”.

L'altra faccia della medaglia, si diceva, è quella dell'opportunità.
E' un peccato che siano così poche le occasioni che vengono offerte alle persone appartenenti al nostro genere di civiltà, di augurarsi qualcosa di buono.
E' un peccato, ma non è affatto qualcosa di strano. Per chi vive qui, a questi ritmi e con le paure e le psicosi che la “società” insegna e consegna alle menti dei suoi civilizzati, potrebbe essere pericoloso rendersi conto quotidianamente che augurarsi qualcosa di bello genera sentimenti di gentilezza, affetto, gratitudine e bellezza. Sensazioni certamente destabilizzanti per chi vorrebbe un gregge obbediente e mansueto. Meglio inventarsi le Festività, ovvero alcuni giorni, non molti ovviamente, convenzionalmente precisi e “puntuali”, durante i quali “le pecorelle” possano sfogare istinti umani naturali, taciuti, per non dire repressi, nei giorni “feriali”.
E visto che l'opportunità esiste, è consigliabile non farsela sfuggire.
Auguro a me stesso e a tutti, nessuno escluso, la Fortuna.
Qualsiasi genere di Fortuna ognuno desideri, quella gli Auguro.
Che sia Fortuna negli affetti, negli affari, nel lavoro, nella salute o in qualsiasi altro campo della Vita, ognuno merita di ottenerla. Ma, soprattutto, Auguro a chiunque di “farsi vedere” dalla Fortuna, perchè, non so come, si è diffusa la falsa notizia che la Fortuna sia cieca, e che proceda nel suo cammino guidata dal “caso”.
A forza di sentirsi ripetere per millenni questa enorme falsità, sarebbe più corretto sostenere che siano le persone ad essere diventate “cieche”, preferendo ritenere “normale” augurarsi di non avere, per l'anno prossimo, le “sfighe” dell'anno passato, piuttosto che cercare la Fortuna qui, adesso, sempre.
Ognuno si senta libero di cercare e di farsi trovare dalla Fortuna, perchè se lo vuole lo può.

“Le sue permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.
Quest'è colei ch'è tanto posta in croce
pur da color che ne dovrien dar lode
dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella s'è beata e ciò non ode:
con l'altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode,”

Il Sommo Poeta – La Divina Commedia (Inferno VII – 88/96)

P.S.: Dante scrive della Fortuna mentre sta passando nell'inferno. E NON E' PER “CASO”.
Buona Fortuna a tutti!!!


Marco Bertelli

















lunedì 25 agosto 2014

Amici





A cosa servono gli Amici? E' una domanda che da millenni il genere umano si pone.
Beh, tre o quattro risposte se le è anche date: per esempio, un amico serve per parlare, per confidarsi, condividere esperienze, per “non sentirsi solo”.
Per aiutarsi, certo: “l'amico si vede nel momento del bisogno”, direi che è il classico dei classici, la definizione di “amico” per antonomasia, perchè un vero amico aiuta sempre un suo amico in difficoltà.
Già, ma cosa succede quando non riesci proprio ad aiutare un amico? Quando non hai proprio niente da dargli, quando, anche se tu fossi l'uomo più ricco della terra, o il più potente, non potresti fare nulla per lui, e nemmeno sacrificare la tua vita servirebbe?
Continuano a raccontarci che viviamo nell'epoca del progresso, della tecnologia, della ricchezza economica (anche se, ogni tanto, qualche “crisi” ci intralcia), del benessere e della salute; e quando veniamo a sapere che un nostro amico, nel fiore degli anni e all'apice della salute, viene improvvisamente affetto da un male misterioso e incurabile, secondo “quelli che ce la raccontano” dovremmo credere che quel nostro amico è stato solo “sfortunato”, e che noi, suoi amici incolpevoli e impossibilitati a salvarlo, dobbiamo stargli vicino e, compassionevoli, assisterlo e accompagnarlo al compiersi del suo destino. Questo “deve fare l'amico”, altro non può. Del resto, dicono sempre “quelli che ce la raccontano”, la coscienza di chi resta “vivo” deve pur dormire tranquilla: come spesso ripetono, “chi muore giace e chi vive si dà pace”.
Non esiste niente di peggio che accontentarsi di certe spiegazioni, di “darsi pace” e credere che quello che ci raccontano sia “la verità”.
Questo lo sanno benissimo anche gli Amici di Fabrizio, detto “Brizio”.
Per loro era normale trovarsi assieme nel loro Inter club, a Larino, nel Molise. Tanti amici assieme a tifare per la loro squadra, vederla in televisione e ogni tanto andare allo stadio; affrontare un viaggio, magari lungo, ma sempre divertente comunque andasse a finire la partita. L'importante era stare assieme. Fabrizio era sempre con loro, sempre pronto ad animare la compagnia, a trovare uno spunto per una risata, a consolare quelli affranti dopo una sconfitta, il primo a celebrare allegramente la vittoria: era il leader, quello che arriva sempre prima, perchè è sempre “avanti”, e che sa tenere le fila della combriccola. Tutti lo rispettavano, lo ascoltavano e lo amavano.
E se il destino dei leader è quello di essere sempre “avanti”, Fabrizio lo ha voluto essere in tutti i sensi: un bel giorno, ha rivelato a tutti i suoi Amici di essere irrimediabilmente devastato da un cancro che lui probabilmente sapeva non l'avrebbe risparmiato.
“Lottare contro il male è una cosa che devi fare da solo, ma quando hai al fianco chi ti vuole bene, non è così doloroso”: più o meno questo deve avere pensato Fabrizio nel breve tempo che la malattia gli aveva concesso.
“Forse si può ancora fare qualcosa, è assurdo che uno se ne debba andare così”: più o meno questo devono aver pensato i suoi Amici mentre, increduli, vedevano svanire il corpo di Fabrizio.
La malattia, inesorabilmente, ha messo a tacere tutti questi pensieri: Fabrizio è scomparso.
A che cosa servono gli Amici, se non possono fare niente per salvare un Amico che lotta contro un male incurabile? A niente.
A meno che tu non sia un Amico di Fabrizio, e che tu ti senta talmente addolorato da una così grande perdita, da capire che non è questa la domanda giusta da farsi.
Spesso non riusciamo a darci pace perchè restiamo senza risposte di fronte ai grandi interrogativi che la vita ci pone, ma forse non capiamo che basterebbe cambiare le domande:
perchè il nostro Amico più caro ci ha lasciato? Lui, che sempre era allegro, pieno di vita, se alla fine se n'è andato non può essere invano. C'è qualcosa che dobbiamo fare per lui, per noi, per quelli che sono rimasti qui, tra i vivi.
Oggi, gli Amici di Fabrizio, pur continuando a tifare per la loro squadra di calcio preferita nel loro Inter Club di Larino nel Molise, hanno istituito la Fondazione no profit “Brizio”, che si occupa di raccogliere fondi per aiutare i malati di cancro e la ricerca medica, l'informazione e i sistemi di prevenzione della malattia che ha portato via il loro migliore Amico.
Gli Amici sono Amici per sempre, anche quando se ne vanno via, lasciando il vuoto e il dolore a quelli che sono rimasti quaggiù. E ti sono vicini comunque, insegnandoti ad aiutare chi soffre di una malattia terribile, inesorabile ed ingiusta, che, nonostante il progresso ed il benessere che ci vengono venduti da “quelli che ce la raccontano”, si fa ancora fatica, inspiegabilmente, a sconfiggere.
L'associazione “Brizio”, come è destino di chi si occupa di cose “scottanti” come combattere certe malattie, deve lottare per aiutare chi deve affrontare cure costose, trasferte disagevoli ed altre problematiche.
Deve lottare per informare, sensibilizzare, aiutare a prevenire.
Lo fa grazie alle donazioni di volontari che capiscono che donare è importante: lo è per gli “altri”, ma fa tanto bene anche a “se' stessi”. Tanti lo hanno capito e, sono certo, tanti altri lo capiranno.
Lo fa anche grazie a Fabrizio, sempre vivo nei loro Cuori.
Del resto, a cosa servono gli Amici?

Dedicato a Fabrizio, che purtroppo non ho mai conosciuto, a Massimo, Luigi e agli altri Amici dell'Associazione “Brizio” di Larino (CB) che, invece, ho avuto la Fortuna di conoscere.


Marco Bertelli 


https://www.facebook.com/brizioassociazionenoprofit/photos/a.203580029791863.1073741827.203578583125341/344067469076451/?type=1
 





domenica 10 agosto 2014

ROCK 'N' ROLL ROBOT - di Franco Galvani


Salvatore ha un aspetto dimesso, cammina lentamente con la schiena leggermente ricurva e lentamente parla con voce incerta tenendomi una mano sul braccio, forse per paura che vada via prima che abbia finito di dirmi le poche parole che ci scambiamo quasi tutti i giorni nella piazza dove posteggio la macchina.
Lui è sempre lì, non l’ho mai visto in compagnia di qualcuno, ci scambiamo il buongiorno, qualche parola sul tempo, sul traffico che ha reso il quartiere invivibile mentre quando arrivò lui tanti anni prima era un paradiso o su sua moglie che da sempre ha qualche problema di salute. Anche io abito lì da parecchi anni ma di lui non ho che un ricordo recente, forse adesso è in pensione e prima, quando lavorava, non aveva tempo per passeggiare in piazza.
Salvatore è sempre vestito allo stesso modo, un piumino lungo rosso che ha visto tempi migliori e un paio di pantaloni di velluto marrone di una taglia almeno più grande del necessario in inverno, una polo a righe blu e verdi e pantaloncini corti color caffelatte d’estate. Non da l’impressione di passarsela bene, non l’ho mai visto nel bar a prendere un caffè assieme agli altri pensionati e quando con la moglie va a fare la spesa nella sua borsa ci sono poche e povere cose. Mi mette un po’ di tristezza vedere come una vita possa arenarsi così nelle secche di chissà quali eventi, chissà cosa faceva prima ?
Non ha le mani dure e callose di un operaio, al contrario, sono grosse ma morbide e curate, quasi spiccano sul resto del corpo, sui radi capelli spettinati e la barba di un giorno o due. Forse un tempo era un agente di commercio o impiegato in qualche ditta, mi piace pensare che abbia passato anni chiuso in un’automobile o in un ufficio e adesso quella piazza sia il suo mondo libero, non so quanti anni possa avere, se li porta bene oppure male, di sicuro se li porta tutti ovunque vada come un fardello pesante che lo fa fermare a prendere fiato ogni tre passi.
Qualche giorno fa l’ho incontrato al ritorno dal lavoro, avevo appena chiuso la macchina quando mi sono sentito chiamare, era lui seduto su una panchina sotto a un albero che mi faceva ampi segni, mentre gli andavo incontro, con fatica si è alzato e dopo avermi salutato mi ha detto che avrebbe bisogno di un favore, sempre che io avessi potuto farglielo. Doveva trasportare alcune cose ma non avendo un mezzo per farlo mi ha domandato se potevamo usare la mia macchina che peraltro è piuttosto capiente.
Per conto mio non c’erano problemi così ci siamo dati appuntamento per il pomeriggio del sabato successivo, ho pensato avesse qualche vecchio mobile da gettare o a una lavatrice o un frigorifero rimediati chissà dove.
Quel pomeriggio si è presentato con in mano due bottiglie di vino “ di quello buono “ per me, fatto da un suo carissimo amico in Piemonte poi mi ha detto di andare in un posto verso il mare dove c’è un circolo ricreativo, a quell’ora l’avremmo trovato aperto e qualcuno ci avrebbe pure aiutato a caricare la macchina, mentre nel magazzino dove avremmo scaricato ci aspettavano i suoi amici. Tanta era la curiosità di sapere cosa aveva fatto nella vita prima di andare in pensione che nemmeno gli ho domandato cosa dovevamo prendere.
Salvatore faceva il massaggiatore sportivo, ha girato tutta l’Italia al seguito di tante società di atletica, poi si è stancato di quella vita così ha preferito fermasi e finire la carriera in una palestra. Anche se in pensione continua a fare i massaggi a schiene e gambe doloranti.
Il circolo era un locale con un bar, una pista da ballo e un piccolo palco per l’orchestra, caricammo in macchina un amplificatore, degli altoparlanti, aste per microfoni e un mixer.
Salvatore suona la chitarra assieme a due amici, un tastierista e un batterista, mi ha detto che le cose non vanno poi male, trovano sempre da fare delle serate. Suonano un po’ di tutto, latino americano, liscio, evergreen, la gente vuole ballare e loro si divertono.
Non avrei mai pensato che un tipo come Salvatore fosse pure un musicista, in gioventù studiò chitarra classica per molti anni. E’ proprio vero che non si devono giudicare le persone dall’aspetto, c’è il rischi di prendere delle cantonate mostruose.
Davanti al magazzino dove custodiscono gli strumenti c’erano gli altri due del gruppo ad aspettarci, Mario il batterista è il solo musicista professionista dei tre, anche lui in pensione ha suonato con molti jazzisti italiani e stranieri e pure nell’orchestra della RAI per tante stagioni. E’ un tipo magrissimo dal volto scavato e due braccia così sottili che pure le bacchette devono essere un peso notevole da sollevare.
Enzo il tastierista, fisarmonicista e sassofonista autodidatta è il più giovane dei tre, barbuto con una pancia enorme e la camicia aperta fino all’ombelico, di mestiere fa il frigorista.
Finito di sistemare le cose Salvatore mi ha chiesto se volevo ascoltare qualcosa, ho risposto che l’avrei fatto molto volentieri. In pochi minuti hanno sistemato gli strumenti, mi sono seduto davanti a loro e non nascondo che avevo un po’ di diffidenza su quello avrei ascoltato.
Salvatore ha cominciato con un arpeggio e subito dopo Mario l’ha seguito accarezzando i tamburi con le spazzole con precisione e sicurezza, quelle braccia sottili sembravano stessero danzando mentre un sorriso luminoso aveva cambiato l’espressione del suo viso, un sorriso nascosto in chissà quale angolo del suo animo. Enzo, accesa una sigaretta, si era allungato sullo schienale della seggiola aspettando il suo momento.
Non sono riuscito a capire subito cosa stavano suonando, la chitarra improvvisava in maniera stupenda su un giro di accordi che mi sembrava di conoscere ma non ero sicuro, poi Salvatore mi ha fatto un cenno con la testa e ha cominciato a cantare Besame mucho, la sua voce era piena e forte molto diversa da quella sommessa che sentivo quando ci salutavamo in piazza. Mentre cantava le note della chitarra erano più delicate, il vento di note era diventato una lieve brezza. Poi con un colpo di tamburo il ritmo è aumentato all’improvviso, con un assolo di batteria, la canzone era diventata molto più veloce ed Enzo è entrato con la tastiera, si sentiva che la tecnica era quello che era però aveva un suono pieno, sembrava che sotto quei tasti ci fosse un’orchestra intera. Dopo aver improvvisato parecchio, ha passato la palla a Salvatore, le sue dita grandi e morbide si muovevano con rapidità sulle corde, poi ha ripreso a cantare la canzone che nel frattempo era diventata uno swing.
Erano davvero bravi ma la cosa strana è stato il loro aspetto, mentre suonavano erano ringiovaniti, le rughe del tempo sembravano scomparse e il loro aspetto era rinvigorito, ridevano e scherzavano tra di loro, non avrebbero mai smesso di suonare, si scambiavano le note dei loro strumenti come ragazzini che si tirano le palline di carta. Non c’erano più i dolori di un’esistenza, suonando riuscivano a esorcizzare il tempo e avrebbero potuto farlo per l’eternità.
Quando torno dal lavoro incontro quasi sempre Salvatore seduto su una panchina in piazza, mi siedo a chiacchierare con lui, mi racconta di come sono andate e serate, se la gente si era divertita oppure no, di quando viaggiava per l’Italia con gli atleti durante le gare. Qualche volta gli offro un caffè o un “bianco” al bar, accetta sempre volentieri e quando usciamo dice che mi deve una canzone, gli rispondo che sabato pomeriggio sarò da loro.

"… C'è questo tipo strano, vedrai ti piacerà,
lui suona la chitarra in una rock'n'roll band
ha un cuore di bambino che non si rompe mai,
attacchi la corrente vedrai ti partirà."
(A. Camerini)

Franco Galvani



lunedì 28 luglio 2014

LO SPECCHIO CONVESSO - di Franco Galvani seconda ed ultima parte







(Prosegue dalla prima parte)

Con gli insegnanti la situazione era migliore tranne che con la professoressa di matematica Donatella Zanara e quello di educazione fisica Vittorio Dallacqua.
Zanara era una zitella prossima alla pensione, dico zitella perché incarnava tutte le caratteristiche che si attribuiscono al termine: magra, alta, mento e naso prominenti, vestita come mia mamma quando era ragazza e un odio sviscerato verso gli uomini, quegli uomini che non l’avevano mai amata, forse per una sua incapacità o forse perché non aveva mai incontrato quello giusto se mai fosse esistito.
La parola single indica qualcosa di diverso, si è single per scelta o perché la vita ha portato a esserlo comunque, una persona single si crea un’esistenza che poi difficilmente riesce a condividere con qualcuno e spesso non la vuole cambiare. Essere zitella è una costrizione.
Non capivo niente di matematica e le interrogazioni erano un supplizio come pure le verifiche. Zanara mi chiamava “signor pastasciutta”, una cosa impensabile oggi; se un insegnante usasse un linguaggio del genere rischierebbe quantomeno l’allontanamento, ma erano altri tempi. I miei ne erano dispiaciuti ma potevano fare poco, vivevo in un ambiente dove la parola e il giudizio di un insegnante non andava contraddetto e forse nemmeno capivano, sì perché un bambino non è mai grasso agli occhi di certe mamme, nel peggiore dei casi è robusto, un eufemismo che non sopporto ancora adesso, poi bisogna mettere in conto la soddisfazione nel vedere un figlio che mangia per dei genitori che appartengono a una generazione che ha conosciuto la fame.
Verso la fine della seconda media, al termine di una brutta interrogazione Zanara mi disse:
“ Signor pastasciutta, farò in modo che ti boccino, ma se ciò non dovesse succedere ti lascerò nel tuo brodo”.
Fu il primo sentito, sincero e liberatorio vaffanculo che mormorai sottovoce tornando al mio posto.
Su un muro nel cortile della scuola c’era scritto: Dallacqua fascista, non fui io a scriverlo, non ne sarei stato capace, tantomeno sarei arrivato a pensare una frase del genere, però la condividevo in pieno. Non so se quell’insegnante di educazione fisica fosse un atleta fallito o un militare radiato per qualche strano motivo, di sicuro ricordo le sue urla che rimbombavano nella palestra. Era un uomo basso, dall’aspetto tozzo e calvo e forse chi fece quella scritta pensò anche alla sua mascella prominente oltre che ai suoi metodi. In palestra riuscivo più a meno a essere all’altezza degli altri se si trattava di fare una corsa di resistenza o certi giochi di squadra, andava peggio con la corsa di velocità ma il mio incubo era la pertica. Tutti riuscivano a salire lungo quell’odiato tubo rosso, arrivavano in cima, toccavano la staffa che lo teneva ancorato alla parete e poi lentamente scendevano, ci riuscivano tutti tranne me.
Dopo qualche penoso tentativo rinunciavo; allora Dallacqua allungava un braccio verso di me e tuonava:
“ Non riesci ad alzarti nemmeno di un palmo ! ”
Non ebbe mai la sensibilità di evitarmi questo esercizio e in quei momenti, assieme all’umiliazione che provavo nell’abbracciare la pertica senza riuscire ad arrampicarmi davanti a tutta la classe, incominciava a nascere in me il pensiero che di sicuro doveva esistere qualcosa in cui ero migliore di loro e dovevo fottermene, si fottermene dei loro commenti e delle loro risate perché “ non dare importanza “ era un termine troppo lieve per descrivere il mio stato d’animo e un giorno saranno stati loro a invidiare me.
Fui bocciato e ripetei l’anno in un'altra scuola. Le cose stavano cambiando, non solo perché finii le medie con un distinto che sorprese e riempì d’orgoglio buona parte della famiglia, ma soprattutto perché mia nonna, durante l’estate che precedette la prima superiore, si stancò di vedermi così grosso e indolente.
Un giorno, senza nemmeno chiedermi un parere, mi mise a dieta; fu una dieta faticosa, presa forse da qualche rivista e prevedeva solo petti di pollo, fagiolini, mele e tanta acqua. Quella che è chiamata l’età dello sviluppo mi aiutò e cominciai le superiori che ero un’altra persona.
Non sono stati anni belli quelli della mia pre adolescenza, però in tante cose recuperai, ad esempio alle superiori vinsi il confronto con la pertica, nelle partite di pallone il calcio d’inizio lo decideva la monetina e i rapporti con gli altri migliorarono notevolmente. Di sicuro quegli anni difficili mi insegnarono molte cose.
Una persona che è stata grassa non si vedrà mai magra, anche quando avrà perso metà dei chili, nemmeno quando potrà indossare subito un abito nuovo senza portarlo tutte le volte in sartoria per qualche modifica, nemmeno quando qualcuno gli dirà:
” Sai che stai proprio bene, come hai fatto ? Devo mettermi a dieta anch’io “
L’ex grasso lo guarderà e penserà che se un tempo fosse stato come lui non avrebbe mai fatto nulla per cambiare il suo aspetto.
Una persona che è stata grassa, quando si mette davanti allo specchio, continua a vedersi grassa, ha di se un’immagine distorta, come se si trovasse davanti ad uno specchio convesso, una deformazione che è dentro di se e lo accompagnerà per sempre.

Franco Galvani

domenica 27 luglio 2014

LO SPECCHIO CONVESSO - di Franco Galvani prima parte


Una persona grassa lo sarà per sempre, continuerà a vedersi e sentirsi grassa anche dopo diete estenuanti, dopo centinaia di ore trascorse in palestra ed anche quando avrà perso metà dei suoi chili non si sentirà mai magra, con un fisico normale come quelli che ha invidiato per anni.
Una persona grassa è quella che abbassando lo sguardo vede due colline: il petto e oltre, ancora più evidente, il ventre, due colline che non gli consentono altra visuale, per guardare la fibbia della cintura e la punta dei piedi dovrà mettersi davanti allo specchio, quello specchio che lo accompagnerà per sempre come uno spietato antagonista di tutta una vita.
Una persona grassa sentirà rivolgersi sempre le stesse battute:
“ Ciao, hai messo su l’airbag? “
Oppure
“ Hei, si fa prima a saltarti che girarti intorno “.
Da adulto è possibile farsi una ragione di questo stato di cose, alcuni si creano una personalità legata al proprio fisico, riescono ed essere esteticamente interessanti e piacevoli ma solo i più forti ci riescono, gli altri, quelli che non ce la fanno fingono di non dare importanza alla cosa ma dentro di se continuano a invidiare coloro che per il loro fisico sembrano disinvolti in qualsiasi occasione, non soffiano come mantici facendo le scale o percorrendo una salita e non si coprono di sudore al minimo sforzo.
Una persona grassa è sempre sudata e ingombrante in ogni situazione perché si muove e agisce per quello che è.
Per lui vestirsi non è facile, vorrebbe essere come i magri che stanno bene con qualsiasi cosa indossino, dall’abito da cerimonia ai jeans strappati e una maglietta consunta, un grasso finisce sempre col vestirsi da grasso.
Le chiamano taglie forti, forse perché le cuciture devono sopportare tensioni maggiori di quelle degli abiti di taglia normale.
Un grasso si veste come un grasso, indossa vestiti sempre un po’ stretti come se questo lo facesse apparire migliore, la cintura dei pantaloni affonda nei fianchi evidenziando una specie di salvagente che cinge il corpo, i bottoni della camicia possono saltare via come proiettili solo con un respiro più profondo mentre la giacca riproduce impietosa le fattezze che ricopre. Durante l’inverno si sente tranquillo, come se maglione e piumino nascondessero ciò che è ma l’estate, quando deve mettersi a nudo, è una tortura. Deforma una maglietta già larga prima di indossarla perché sia ancora meno aderente, poi ci sono i pantaloncini che lo fanno stare fresco ma dai quali escono due gambe che camminando strisciano tra loro e a sera sono rosse e irritate nella parte interna come se fossero state su una graticola.
Un adulto spesso si rassegna, la sua costituzione è questa, lo è sempre stata e sempre lo sarà oppure in gioventù ha avuto anche un fisico atletico poi nel corso degli anni per pigrizia o stile di vita è cambiato e gli va bene così.
Essere grasso da piccoli come lo sono stato io è tutta un’altra cosa.
Incominciai a prendere peso intorno ai sei anni, all’inizio non diedi importanza a questa cosa, arrivai alla quinta elementare senza sentirmi diverso dagli altri, avevo una compagnia di amici con i quali mi ero inserito abbastanza bene, forse perché eravamo un gruppo parrocchiale e il prete predicava l’accoglienza o forse perché avevo trovato degli amici comprensivi, però rimanevo sempre in seconda fila, non sono mai stato un leader per una questione di carattere certo ma l’aspetto non mi aiutò. Nei giochi in cui bisognava correre spesso mi escludevo e nelle partite a calcio io ero il “ campo e palla “ ovvero la scelta della parte di terreno di gioco da dove cominciare la partita e la concessione del calcio d’inizio, una specie di benefit concesso alla squadra con un elemento non molto capace.
Verso i tredici anni incominciai a guardare le ragazze in modo diverso, non erano più soltanto compagne di giochi, i primi baci in qualche angolo o camminare tenendosi per mano erano cose impensabili per me, in certi momenti mi sentivo invisibile così capii che dovevo darmi una mano di vernice bella evidente e c’erano due metodi per farlo: diventare simpatico facendo ridere senza sembrare troppo un buffone oppure diventare intelligente parlando di problemi esistenziali con aria tenebrosa. Queste tecniche non sono la soluzione del problema, però aiutano.
Gli amici si scelgono, i compagni di classe no e trovarsi con una ventina di persone sconosciute non è facile per nessuno. A scuola, nei primi due anni delle medie non ero particolarmente brillante, le prese in giro per i brutti voti andavano ad aggiungersi a quelle per l’aspetto fisico, non riuscivo a entrare nei gruppi che si formavano all’interno della classe. Quando alcuni compagni si vedevano nel pomeriggio dopo la scuola non m’invitavano mai come pure alle feste di compleanno.
Un giorno parlando di questo con Nando, il fratello maggiore di un mio amico egli mi disse:
“ Picchia per primo e picchia forte “.
“ Ma non sono capace “ risposi
“ Tu picchia per primo e picchia forte “.
Qualche giorno dopo durante la ricreazione qualcuno fece una battuta, mi avvicinai a lui e con una spinta lo feci cadere a terra con una facilità che mi parve impossibile. Non ero particolarmente forte ma la mia massa fu sufficiente ad allontanare uno che pesava forse la metà di me. Stessa sorte toccò ad altri due che intervennero per difenderlo. Da quel giorno le battute su di me diminuirono notevolmente e pure il loro tono cambiò. Per quanto ricordo fu l’unica volta che usai la forza a scuola.

(continua)

Franco Galvani

giovedì 24 luglio 2014

Genova per me




                            

Un gomitolo inestricabile di viuzze che sembrano piovute giù da chissà dove.
O forse arrivate lì di corsa, come tanti bambini che si scapicollano giù da una salita, facendo a gara a chi arriva prima davanti al Mare; e sfiniti e confusi tirano il fiato e si volgono indietro, stretti l'uno accanto all'altro, ansimanti.
E guardano di nuovo su, in alto, increduli della strada lunga e ripida che hanno appena corso.
Viuzze buie e luccicanti di cuori che palpitano in tante lingue diverse, ma allo stesso ritmo regolare, inesorabile.
Viuzze tanto strette da desiderare di risalire per poi allargarsi, e dilatarsi, e diventare grandi e alte; e diventano piazze, viali, fontane, giardini: sembra vogliano riprendere fiato.
E sempre accatastate, ansimanti, raggomitolate e impenetrabili, salgono la cima dei monti e guardano di nuovo in giù, da dove erano partite, e tirano un po' il fiato.
Genova è un gomitolo di vie che si muovono su e giù, come la maestosa marea che li aspetta imperterrita ai suoi piedi, e come le pendici dei monti che, genitori apprensivi, guardano e sorvegliano con infinito Amore i figli che corrono nell'inesplicabile, ridendo di sè, urlando, litigando, facendo Pace:
in questa maestosa trappola di Libertà che tutti sanno essere "Superba".


Marco Bertelli

 

mercoledì 19 febbraio 2014

Don't play that song (you lied)

Oggi, a Roma, nei palazzi della politica, si sono incontrati un uomo di spettacolo ed un politico rottamatore. Noi italiani andiamo pazzi per le sfide, i duelli all'ultimo sangue, i confronti dialettici, specie se a questi diamo il nome (di pura fantasia, ovviamente) di “dibattito politico”. Non è che siano davvero importanti: sappiamo da decenni che quello che viene detto durante questi “scontri” non avrà la minima influenza sui destini nostri e della nazione. Il fatto è che i bar, gli uffici, le fabbriche, i posti dove la gente si trova, insomma, diventerebbero insopportabilmente noiosi se non ci fossero le discussioni che nascono da avvenimenti come quelli che abbiamo visto oggi: spettacoli “dal vivo”, inopinatamente gratuiti, durante i quali il trasformare l'inutile in essenziale, arte nella quale noi italiani non abbiamo rivali nell'universo, raggiunge l'apice.
Tra “uomo di spettacolo” e “politico rottamatore” corre una differenza minima, per non dire nulla. Entrambi possiedono una notevole capacità recitativa; a distinguerli, semmai, c'è il fatto che mentre l'uomo di spettacolo adotta sempre la stessa tecnica che ha imparato negli anni, praticando questo nobile mestiere, il politico rottamatore deve necessariamente essere capace di cambiare tecnica all'occorrenza, a seconda, cioè, del tipo di elettore col quale intende comunicare, e a seconda degli sbalzi di umore dei sondaggi di opinione, che dettano e spesso mutano il copione da recitare.
Il copione di oggi, per ottenere il successo, doveva essere parecchio originale: si trattava di mettere in scena uno spettacolo degno del migliore teatro d'avanguardia, difficilissimo da capire per un pubblico abituato a show tipo Festival di Sanremo, ma è stato comunque di alto livello.
Uomo di spettacolo e politico rottamatore, dopo essersi brevemente scambiati i convenevoli di rito, sono passati agli insulti reciproci con la disinvoltura tipica del teatro che fonde il “surreale” col “vero”, come nell'irruzione Pirandelliana dei “sei personaggi in cerca d'autore”, trasformandola, in questo caso, nei dei “due politici in cerca di elettore” (Maestro, ovunque tu sia, abbi pietà di me che non trovo un paragone meno blasfemo...).
La “mirabile” pièce di teatro d'avanguardia è proseguita sull'onda degli insulti per pochi minuti, poi, a sublimare il non-sense (tipico di questo genere teatrale), l'esibizione si è spostata in sala stampa, dove i due contendenti, in collaborazione con i giornalisti, per l'occasione nel ruolo di “spalla”, hanno deciso a quali domande dovevano rispondere, dimostrando di saper anche rifiutare di rispondere a domande sgradite.
La recita si è quindi conclusa: l'Italia, come previsto, avrà un “uomo di spettacolo” come prossimo Presidente del Consiglio, mentre il “politico rottamatore” se ne torna a casa sua, a Genova.
Dicono che il Festival di Sanremo stia perdendo consensi. In effetti è uno spettacolo abbastanza monotono anche secondo me. Ci vorrebbe, per farlo piacere di nuovo, quello che i francesi chiamano “un coup de thèatre”: magari l'irruzione Pirandelliana di un “politico rottamatore” e un “uomo di spettacolo”, che assieme, sul palco, al culmine della serata, si esibiscono nel loro duetto preferito: “Don't play that song (you lied)”.


Marco Bertelli

lunedì 17 febbraio 2014

Campo de' Fiori


Avrei preferito camminare qui da uomo libero, senza queste due ali di folla urlante e questa compagnia di frati “decollati”, penitenti di una colpa che io non conosco.
Mi domando chi sia oggi il condannato: io (libero da ogni insegnamento), che mi appresto a salire sulla pira pronta a divampare, o loro, quelli che mi scortano, recitando salmi senza conoscerne il significato (come è stato loro insegnato), e quelli che mi sputano addosso, perchè (così è stato loro insegnato) l'Eretico solo di questo è degno.
La risposta si confonde tra gli insulti e le orazioni che mi percuotono le orecchie con uguale vigore, senza nemmeno scalfirle.
Campo de' Fiori è un luogo senza tempo, in mezzo ad una città eterna.
Qui è normale che il corpo di un “Eretico”, ridotto dalle fiamme in cenere, riacquisti le sue sembianze in bronzo, modellato dalla Memoria travestita da artista. Chi mi ha condannato sembra ignorare questo; o forse finge di ignorarlo, preso com'è dalla smania di mantenere quel potere che solo la paura può difendere, e colui che si lascia guidare dalla paura è destinato, prima o poi, a farsi sopraffare dalla paura stessa, è solo questione di tempo.
Ma tempo e paura appartengono all'illusione dei “vivi”, io mi appresto a diventare eterno, cioè senza tempo. Dopo aver vissuto in un corpo impregnato di Eroico Furore, dopo aver lottato per affermare la mia Verità, dopo aver amato a mio modo il mondo, dopo aver lasciato il segno, torno ad essere l'Anima, immune da giudizi e condanne.
Campo de' Fiori mi accoglie nel suo fuoco, ma non mi brucia. Quello che arde è solo quel corpo che i condannati alla paura vedono ardere, ma non sono io. Io resto scritto, io resto letto, io resto vivo. Chi mi ha voluto qui, oggi, a Campo de' Fiori, arde nelle prigioni dello sfarzo, in palazzi fondati sulla paura, pronti a diventare cenere, e non c'è alcuna ingiustizia in tutto ciò.
Questa piazza senza tempo in mezzo ad una città eterna, oggi è un rogo; ma quel che oggi è cenere, a primavera sboccerà.
E' per questo che si chiama Campo de' Fiori.

A Giordano Bruno.


Marco Bertelli

martedì 14 gennaio 2014

(Dolce) Stil Novo


Avevo dormito troppo, o bevuto troppo poca acqua, chissà.
A creder tutto ciò grave fatica, ben so, mi si farà.
Però quel giorno, grasso di carnevale,
tutto mi sembrava fuor che invernale.

Non sol l'umani, ma anche Natura s'era travestita,
tal che il cònsono inverno parea estate smarrita;
ornata, sì com'era, del Sol i raggi e a fior agghindata,
dall'emisfer di Rio me la credei emigrata

fin qua giù per ammirar tenzone,
come s'usa, delle maschere al veglione,
ove scherzar è d'uopo, e far di sé gran mostra
assai è caro a chi fa rotar giostra

su cui salir di troppi è l'ambizione,
per cui al disìo valga consolazione
pe'l popol, che i soli pochi eletti,
da lui sien designati e non a lui dispetti.

Qui al popolo convien democrazia,
non certo sommission pacata e ria
e se a tenzon di maschera tu non puoi gareggiare
il giusto eletto tuo con fida speme potrai tifare.

Così, l'abiti più sgargianti fur cuciti
per quei ch'eran di tasca i più forniti,
visi posticci a posticci visi sovrapposti
che qual dei due non so, piacean nascosti

Però tutti di gran lusso s'atteggiavano
fin anco colà ove in favella marcivano
anzi, un di lor di questo fece gran dileggio
a quei ch'azzardavan meglio al peggio

“A carneval, si sa, vince lo scherzo
chi serio si fa, al massimo vien terzo
quindi il primato non lo si può negare
a chi lo mal parlar vuol sventolare”

E il popol tutto rise di gran cuore
e tal maschera coprì di grande onore.
Avea ei sì ben colto lo spirto della festa
che il dì seguente non prese ceneri in testa,

ed ei, cui la maschera non fu tolta,
di essa s'invaghì e della gente molta,
che non si diede pensier alcun di scontentare,
tenendo sua favella ben volgare.

Chi sa maneggiar folle lo sa e vanta
del suo conoscer ben la folla tanta,
che viene lusingata e mai si desta
quando lusinghe nel sogno suo fanno festa.

Così, senza considerar tributo che pagar deve
a sua mercè stessa, la folla mangia e beve
dal piatto e calice che gli vien porto
non discernendo mai se a ragion o a torto,

chè ha avuto ciò che vuole
nuovo cibo, non parole,
quelle non son nutrimento
ma illusorio stordimento.

Carneval or è tutto l'anno
senza frode senz'inganno,
qual sia la maschera che tiene
quel poter che va e che viene.


Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”
Dante – Inferno XXVI


Marco Bertelli