martedì 27 gennaio 2015

Il senso della Memoria


La memoria è una cosa fantastica. Saperla usare è ciò che può renderci migliori o, quanto meno, farci vivere meglio. E' una facoltà che noi umani potremmo usare consapevolmente, a differenza di alcuni animali, che la usano istintivamente; oggi, camminando nel mio quartiere, ho visto un gatto che si nascondeva da un cane che passeggiava per di lì con padrone al seguito. Li avevo già visti litigare fra loro (cane e gatto, intendo) senza che nessuno riuscisse a sopraffare l'altro, ma oggi il micio ha ritenuto più saggio acquattarsi sotto un'auto parcheggiata, per evitare altre risse.
Noi umani non siamo così. Abbiamo metodi assai più raffinati per servirci della memoria.
Oggi, per esempio, l'uso della memoria è istituzionalmente impegnato nel ricordo di una delle più disarmanti vergogne che ha segnato l'esistenza del genere umano: il folle tentativo di sterminio, in parte purtroppo riuscito, perpetrato dai nazisti nei confronti degli ebrei durante il secondo conflitto mondiale.
Allo scopo di non farci dimenticare l'orrore del male che si insinua e devasta l'anima collettiva, oggi le istituzioni ci mostrano immagini raccapriccianti di corpi orrendamente segnati dalla fame, ammassati in fila all'ingresso di stabilimenti all'interno dei quali verranno trasformati in cenere; ci snocciolano cifre di famiglie distrutte, di età spezzate, di storie mai scritte, di vite alle quali è stato impedito di vivere. Tutto questo per farci inorridire (… e ci mancherebbe altro) e per farci gridare tutti all'unisono: “Mai più!!! Mai più Olocausto, mai più campi di sterminio, mai più ingiustizia, mai più razzismo, mai più guerre e mai più odio!!!”. Grida nelle quali tutti (a parte costruttori d'armi e leaders fanatico/religiosi di ogni sorta, che comunque in teoria dovrebbero ancora essere in larga minoranza) si riconoscono, ovviamente.
Riconoscersi in queste grida, però, non basta. Non sono serviti a molto, evidentemente, settant'anni di “giorni della memoria”, se non sono cessate guerre, stragi, attentati e neppure olocausti; cambiano carnefici e vittime, cambiano i modi, i pretesti, forse, ma gli eventi tragici non sono certo estinti.
Del resto, noi umani non siamo come i gatti: a loro basta evitare di avere a che fare con i cani, basta nascondersi sotto una macchina parcheggiata. Basta eliminare dal possibile futuro la causa di uno sconveniente passato; per loro è semplicissimo, per noi umani, invece, è molto più complicato.
Certo, in qualcosa sbagliamo se è vero che, insistendo nel non dimenticare, ripetiamo continuamente gli stessi sbagli, lamentandocene, per giunta.
Forse dovremmo trovare un nuovo senso nella memoria, forse non la interpretiamo nel giusto senso, e qualcosa ci sfugge.
Eppure, rivedendo quelle immagini che oggi ricorrono con straziante frequenza, qualcosa che, forse, abbiamo dimenticato di notare c'è. Non è nei volti pieni di angoscia, o nei corpi privi di vita ammassati in fosse comuni, non è nemmeno negli sguardi pieni d'odio degli aguzzini nazisti, peraltro anch'essi privi di vita (e di dignità, quantunque ostentata).
Forse dovremmo stare più attenti agli scenari. Notare, per esempio, come erano costruiti i lager, padiglioni squadrati, senza spunti architettonici di rilievo, nulla che possa far pensare al minimo scatto di fantasia in chi li ha concepiti. Le recinzioni che le circondano: invalicabili, apparentemente invincibili.
E quel cancello, forse l'unico particolare che lasci pensare ad uno scatto d'arte di chi l'ha concepito. Tant'è vero che qualcuno ha pensato bene di “onorarlo” con una scritta: “Il lavoro fa liberi” (tradotto).
Chi entrava in un lager non aveva scelta, ne era costretto. Passava per quel cancello leggendo quella scritta, e forse non capiva. Le cose gli erano chiare, forse, poco prima di entrare nella camera a gas.
Fino ad oggi ci hanno detto che il senso nel quale deve essere interpretata la memoria è questo: le vittime entrano nella direzione della scritta “arbeit macht frei”, e noi abbiamo sempre seguito quella direzione.
A me piacerebbe percorrerla nel senso opposto, dove si legge “frei macht arbeit”: “libertà fa lavoro”. A pensarci bene, sarebbe un bel modo di onorare la memoria di quegli ebrei innocenti.
Sono stati uccisi poco dopo aver letto quella scritta che, forse, dava loro un minimo di speranza.
Noi abbiamo creduto, fino ad oggi, che quella scritta dovesse essere tenuta così com'era, ma loro, che sono stati sacrificati in nome di una causa folle, poco prima di entrare nelle stanze dove li avrebbero uccisi, hanno potuto girarsi e leggere quella scritta per il verso “giusto”.
Non hanno permesso loro di tornare indietro a dircelo.
E' per questo che abbiamo ancora bisogno di riflettere sulla memoria, e ancora non sappiamo cosa voglia dire essere liberi.


Marco Bertelli