La memoria è una cosa fantastica.
Saperla usare è ciò che può renderci migliori o, quanto meno,
farci vivere meglio. E' una facoltà che noi umani potremmo usare
consapevolmente, a differenza di alcuni animali, che la usano
istintivamente; oggi, camminando nel mio quartiere, ho visto un gatto
che si nascondeva da un cane che passeggiava per di lì con padrone
al seguito. Li avevo già visti litigare fra loro (cane e gatto,
intendo) senza che nessuno riuscisse a sopraffare l'altro, ma oggi
il micio ha ritenuto più saggio acquattarsi sotto un'auto
parcheggiata, per evitare altre risse.
Noi umani non siamo così. Abbiamo
metodi assai più raffinati per servirci della memoria.
Oggi, per esempio, l'uso della memoria
è istituzionalmente impegnato nel ricordo di una delle più
disarmanti vergogne che ha segnato l'esistenza del genere umano: il
folle tentativo di sterminio, in parte purtroppo riuscito, perpetrato
dai nazisti nei confronti degli ebrei durante il secondo conflitto
mondiale.
Allo scopo di non farci dimenticare
l'orrore del male che si insinua e devasta l'anima collettiva, oggi
le istituzioni ci mostrano immagini raccapriccianti di corpi
orrendamente segnati dalla fame, ammassati in fila all'ingresso di
stabilimenti all'interno dei quali verranno trasformati in cenere; ci
snocciolano cifre di famiglie distrutte, di età spezzate, di storie
mai scritte, di vite alle quali è stato impedito di vivere. Tutto
questo per farci inorridire (… e ci mancherebbe altro) e per farci
gridare tutti all'unisono: “Mai più!!! Mai più Olocausto, mai più
campi di sterminio, mai più ingiustizia, mai più razzismo, mai più
guerre e mai più odio!!!”. Grida nelle quali tutti (a parte
costruttori d'armi e leaders fanatico/religiosi di ogni sorta, che
comunque in teoria dovrebbero ancora essere in larga minoranza) si
riconoscono, ovviamente.
Riconoscersi in queste grida, però,
non basta. Non sono serviti a molto, evidentemente, settant'anni di
“giorni della memoria”, se non sono cessate guerre, stragi,
attentati e neppure olocausti; cambiano carnefici e vittime, cambiano
i modi, i pretesti, forse, ma gli eventi tragici non sono certo
estinti.
Del resto, noi umani non siamo come i
gatti: a loro basta evitare di avere a che fare con i cani, basta
nascondersi sotto una macchina parcheggiata. Basta eliminare dal
possibile futuro la causa di uno sconveniente passato; per loro è
semplicissimo, per noi umani, invece, è molto più complicato.
Certo, in qualcosa sbagliamo se è vero
che, insistendo nel non dimenticare, ripetiamo continuamente gli
stessi sbagli, lamentandocene, per giunta.
Forse dovremmo trovare un nuovo senso
nella memoria, forse non la interpretiamo nel giusto senso, e
qualcosa ci sfugge.
Eppure, rivedendo quelle immagini che
oggi ricorrono con straziante frequenza, qualcosa che, forse, abbiamo
dimenticato di notare c'è. Non è nei volti pieni di angoscia, o nei
corpi privi di vita ammassati in fosse comuni, non è nemmeno negli
sguardi pieni d'odio degli aguzzini nazisti, peraltro anch'essi privi
di vita (e di dignità, quantunque ostentata).
Forse dovremmo stare più attenti agli
scenari. Notare, per esempio, come erano costruiti i lager,
padiglioni squadrati, senza spunti architettonici di rilievo, nulla
che possa far pensare al minimo scatto di fantasia in chi li ha
concepiti. Le recinzioni che le circondano: invalicabili,
apparentemente invincibili.
E quel cancello, forse l'unico
particolare che lasci pensare ad uno scatto d'arte di chi l'ha
concepito. Tant'è vero che qualcuno ha pensato bene di “onorarlo”
con una scritta: “Il lavoro fa liberi” (tradotto).
Chi entrava in un lager non aveva
scelta, ne era costretto. Passava per quel cancello leggendo quella
scritta, e forse non capiva. Le cose gli erano chiare, forse, poco
prima di entrare nella camera a gas.
Fino ad oggi ci hanno detto che il
senso nel quale deve essere interpretata la memoria è questo: le
vittime entrano nella direzione della scritta “arbeit macht frei”,
e noi abbiamo sempre seguito quella direzione.
A me piacerebbe percorrerla nel senso
opposto, dove si legge “frei macht arbeit”: “libertà fa
lavoro”. A pensarci bene, sarebbe un bel modo di onorare la memoria
di quegli ebrei innocenti.
Sono stati uccisi poco dopo aver letto
quella scritta che, forse, dava loro un minimo di speranza.
Noi abbiamo creduto, fino ad oggi, che
quella scritta dovesse essere tenuta così com'era, ma loro, che sono
stati sacrificati in nome di una causa folle, poco prima di entrare
nelle stanze dove li avrebbero uccisi, hanno potuto girarsi e leggere
quella scritta per il verso “giusto”.
Non hanno permesso loro di tornare
indietro a dircelo.
E' per questo che abbiamo ancora
bisogno di riflettere sulla memoria, e ancora non sappiamo cosa
voglia dire essere liberi.
Marco Bertelli