Chi ha più o meno la mia età sa di
che cosa parlo.
A quel tempo il mondo era completamente
selvaggio e addirittura si credeva “libero”.
Si veniva dagli anni cosiddetti “di
piombo” e ci si dirigeva assai inconsapevolmente verso gli anni del
cosiddetto “riflusso”.
Ma noi che allora avevamo quasi
vent'anni, come in genere fanno i ragazzi di ogni tempo, non ci
occupavamo molto del futuro, ma godevamo i succosi frutti del “qui
ed ora”. Ci divertivamo con assai poco, mentre sui giornali si leggeva di
generali statunitensi rapiti e poi, diversamente dagli statisti
nostrani, ritrovati nelle mani degli stessi terroristi e liberati.
Si leggeva di banchieri bancarottieri
piduisti e filovaticani “suicidatisi” in posti impossibili e noi
uscivamo la sera a mangiare la pizza e a ballare.
D'inverno si studiava (poco a dire il
vero) e si amava la musica: rock, discomusic, punk e soul erano i
generi preferiti; discutevamo tra noi su quale fosse fra questi il
genere più “giusto”, mentre si discuteva sempre meno di “destra”
o di “sinistra”. D'estate, invece, si rimediava qualche lavoro
stagionale, mensile o bimestrale, che giustificava le vacanze
d'agosto e le successive invernali: era piuttosto facile trovare
lavoro a quell'epoca.
Poi (ma mica tanto poi) noi ragazzi
pensavamo molto alle ragazze, le quali, con abilità tutta femminile,
davano l'idea di non pensare a noi maschietti, ma era solo un trucco.
Un gioco antico le cui regole erano note solo alle ragazze e che
serviva a far sembrare la conquista un evento epocale per noi ignari
ragazzi, che ci cascavamo sempre: era il “tempo delle mele”, il
tempo dei grandi amori che duravano poco, fuochi che infiammavano
sogni o bruciavano speranze, ma entusiasmavano sempre.
Ecco, l'entusiasmo dominava quei tempi
e chi può ricordarseli non lo potrebbe mai negare; e quando si parla
di entusiasmo in generale, a un italiano medio (ma anche no) viene in
mente il calcio.
Il 1982 era l'anno dei mondiali di
Spagna, e quella sfrenata passione che pervade individui di ogni
nazione, razza, religione e ceto sociale era all'apice. Principale
nutrimento del demone dei nostri tempi denominato “panem et
circenses”, il calcio, da parecchi decenni, ha anche la funzione
non trascurabile di catalizzatore di spiriti nazionalistici perduti o
mal assemblati, come nel caso del nostro travagliatissimo paese, che
fino ad allora era considerato “provinciale” rispetto a potenze
come Francia, Inghilterra e soprattutto Germania, vere e proprie
“locomotive” trainanti dello spirito dell'Europa che all'epoca si
stava ancora formando.
Provinciali eravamo e da provinciali
cominciammo quel mundial. Passammo la prima fase con grande fatica
contro avversari ritenuti assai più “provinciali” di noi. Il
gioco e i risultati erano deludenti e assai al di sotto delle
aspettative. Se eravamo quelli visti fin lì, c'era da aspettarsi il
peggio nella fase successiva contro i colossi Argentina e Brasile,
rispettivamente campioni in carica il primo e strafavorita per il
successo finale il secondo. Quello che impressionava più di ogni
altra cosa, nessuno se lo può dimenticare, era l'acredine con la
quale la stampa e le tv nazionali si scagliavano contro i giocatori: si
raccontava, specialmente sui quotidiani specializzati, di rivolte
della squadra conto il tecnico Bearzot, di apatia, di odio
serpeggiante tra le fila della compagine e degli accompagnatori e
persino di una storia di omosessualità tra alcuni giocatori. Quelli
che dovevano difendere il nostro beneamato tricolore erano dipinti
come ricchi e strapagati parassiti che si arricchivano alle spalle
dell'umiliato popolo italiano. Incapaci dal primo all'ultimo, i
giocatori erano, a detta della stampa, totali delusioni, a cominciare
proprio da colui che doveva essere il nostro goleador: Paolo Rossi.
La squadra, dal canto suo, visto la
piega che gli eventi stavano prendendo, non si limitò a negare con
forza le insinuazioni dei pennivendoli, ma si chiuse in un
blindatissimo “silenzio stampa”, che li esponeva ulteriormente a
critiche e malignità che, comunque, non si placavano ma si
moltiplicavano.
Era in questo clima che noi spettatori
e tifosi ci accingevamo a sederci davanti alla tv per assistere alla
prima partita della seconda fase contro i “mostri” argentini che
schieravano, tra gli altri, un certo Diego Armando Maradona, già a
quei tempi a ragion veduta assurto al titolo di “pibe de oro”.
Già al termine del primo tempo, avere chiuso sul risultato di zero a zero, poteva essere considerato un successone. Poi, accadde quel che nessuno si aspettava:
Tardelli e Cabrini infilavano due volte la
porta avvesaria, e mentre noi increduli davanti allo schermo temevamo
la rimonta dei sudamericani, dalle inquadrature dei volti dei nostri
giocatori trapelava una tranquillità mista a grinta mai vista
fino a quel momento. Da lì in poi, fu un assalto alla porta di
Zoff, colto di sorpresa solo verso la fine da una punizione dal
limite battuta a tradimento dal grande Passarella. E Diego? Beh, un
Gentile mostruoso non gli ha praticamente mai fatto vedere palla per
tutta la partita.
Cosa stava succedendo? Battuti i
campioni uscenti? "Una botta di fortuna inaspettata", sottolineavano il
giorno dopo i giornalisti, presi evidentemente alla sprovvista:
"vedremo cosa succederà col Brasile tra pochi giorni".
Il Brasile: solo a nominarla la
nazionale verde-oro metteva i brividi. Se poi si vuole entrare nello
specifico e parlare dei giocatori, c'era di che agghiacciare. I
calciatori brasiliani, da sempre, hanno una caratteristica: a parte
il portiere, tutti potrebbero essere goleador. Il loro tasso di
classe è tale per cui potrebbero giocare tutti centravanti, anche i
terzini: basta vedere la formidabile nazionale vincitrice dei
mondiali del 1970 con sua maestà Pelè, per rendersene conto, ma
quella del 1982 era, se possibile, ancora più formidabile: Zico,
Falcao, Socrates, Eder, Junior, Cerezo erano solo i sei undicesimi
della squadra, ma avrebbero fatto impazzire le migliori difese anche
se gli altri cinque giocatori fossero stati dei bambini.
Consapevoli di ciò, noi spettatori e
tifosi ci accingevamo a sederci davanti alla tv per assistere a
quello che avrebbe dovuto essere il supplizio di una squadra, la
nostra, ancora in attesa di colui che avrebbe dovuto essere il nostro
goleador, a secco anche contro l'Argentina, bersaglio di ulteriori
critiche, di accuse di totale incapacità e del quale si erano ormai
perse le tracce: Paolo Rossi.
Beh, non la farò tanto lunga, come è
andata lo sanno tutti: la testina e il piedino di colui che da quel
giorno in poi sarebbe diventato “Pablito”, il futuro
capocannoniere del mundial, Pallone d'Oro e uno dei più grandi goleador di sempre,
gonfiarono per tre volte quella rete che era considerata quasi
inviolabile e divennero storia.
Battemmo i mostri sacri brasiliani
grazie ad un vituperato e fino a poco prima considerato incapace,
mangiapane a tradimento e sospetto omosessuale (grave colpa per la
bigotteria ancora strisciante in una ancora cattolicissima Italia).
Ma il successo di Paolo Rossi e della
nazionale azzurra non si limitò all'ambito puramente sportivo.
Eh
sì, perchè noi spettatori e tifosi impazzimmo di entusiasmo e ci
riversammo per le strade di tutte le città, i paesi e le frazioni di
paese di tutta Italia a festeggiare: tutti, o quasi, gridavamo di
gioia come non era mai successo: ci abbracciavamo, anche tra
sconosciuti, perchè avevamo scoperto di essere tutti della stessa
famiglia: quella italiana.
Qualcuno, più anziano di me, mi fece
notare che era dai tempi della liberazione che non si vedevano scene
del genere e nonostante si trattasse di un avvenimento di portata infinitamente
inferiore a quello del 1945, lo spirito sembrava quasi lo stesso.
Spirito nuovo, puro e gioioso per noi ragazzi.
Ma quello che faceva riflettere, di
questo spirito, era il fatto che era nato in maniera inaspettata,
quasi dal nulla: quel nulla dal quale sembrava risorta quella
“nullità” che era considerato il Pablito nazionale. Paolo Rossi
era diventato un simbolo che dimostrava come si può diventare eroi
in ogni momento, che si può sempre risorgere dalle proprie ceneri:
come la fenice, come solo un italiano è capace di fare.
I giorni successivi ci condussero al
trionfo finale, nel quale abbiamo stracciato le temerarie velleità
dell'eterno rivale sportivo e non, quella Germania che ci faceva
ancor più paura, se possibile, dei fuoriclasse brasiliani: coi
tedeschi era una questione d'onore più che di sport, ed avemmo la
meglio.
Che gioia. Che tripudio. Che Spirito. Eravamo tutti dei
“Pablito” in fìeri, ed Italiani come avevamo dimenticato di
essere.
Ora son passati quasi quarant'anni, e
tante altre cose sono passate: il mondo è completamente cambiato,
anche se il calcio nutre ancora abbondantemente quel demone del
“panem et circenses”, e anche se tu hai deciso di lasciarci,
caro Pablito, il simbolo che eri diventato viene ancora custodito nei
cuori di quelli che l'hanno visto nascere.
Un simbolo di come sappiamo, possiamo e
forse dobbiamo essere.
Mura senza tempo sussurrano dentro acque sorde. Fiotti di luce invadono pareti, che raccontano storie di trionfi di patrie e disfatte di uomini: sempre vere, mai sincere. La bellezza è scaraventata nel riflesso liquido, la verità è protetta nei meandri.
Se c'è una cosa che si rende detestabile più che mai in questi tempi è l'ipocrisia.
Ne vediamo a fiumi intorno a noi, scritta sui giornali, proiettata sugli schermi televisivi e affissa sui muri. La vediamo, la tocchiamo, ce ne vestiamo, la mangiamo e, quel che è peggio, la digeriamo pure. Mi chiedo che senso abbia istituire "la giornata del..." ad ogni piè sospinto, per qualsiasi argomento che provochi fastidio, dolore o, peggio, lutto.
Per tutte le cose che sono causa di odio, dolore, pena e pietà è stata istituita "la giornata del...".
Si vuole, dicono, "sensibilizzare" le coscienze alle piaghe che affliggono la nostra cosiddetta "civiltà", ma a me sembra che i risultati di tale "sensibilizzazione" portino effetti del tutto opposti a quelli degli intenti dichiarati: a tal punto che si direbbe che gli intenti non siano affatto quelli, per l'appunto, dichiarati, ma quelli, deleteri, che fanno sì che ogni anno ci si debba ritrovare a ribadire statistiche e numeri che dicono chiaramente che "la giornata del...", celebrata lo scorso anno, non ha migliorato nulla, e questo nella migliore delle ipotesi, ma in compenso aumentano ogni volta di più rabbie e rancori. Oggi, per esempio, si celebra la "giornata contro violenza alle donne". Da non so quanti anni la si celebra, ma voi credete che sui giornali di domani non troverete qualche trafiletto, se non addirittura titoli su più colonne che raccontino di qualche stupro, qualche omicidio o qualche sopruso perpetrato verso donne di qualsivoglia età? Oppure credete che da domani, per esempio, qualche direttore di giornale (magari proprio uno di quelli che oggi dicono di mettere all'indice la violenza alle donne) tratterà una sua dipendente in maniera più equa rispetto al di lei collega maschio, fino a privarsi di una pur modesta quota dei suoi preziosi, sudatissimi e mai abbastanza cospicui introiti? O, ancora, pensate che lo stesso direttore desisterà dallo "sbirciare" in modo becero e concupiscente tra le pieghe e gli orli della minigonna di ordinanza che indossa la sua avvenente segretaria?
Uso l'esempio del direttore di giornale solo per evidenziare l'ipocrisia corrente, ma è fin troppo ovvio che l'esempio si estende ben al di là dei locali dove si propagano le campagne della "giornata del...".
Ma dalle più alte sfere ai più bassi fondi, quel che conta è che si sia convinti che "la giornata del..." è importante e che quindi, per oggi, si debba parlare della violenza alle donne.
Va bene, ci sto, parliamone. Ma voglio farlo un po' a modo mio.
A testimonianza del fatto che il problema della violenza alle donne è qualcosa di molto antico e molto più profondo di quanto una semplice e innocua "giornata del..." possa concepire, mi rivolgerò al Sommo Poeta in persona, pescando dal suo infinito serbatoio di Amore e Saggezza, estraendone la storia di Piccarda Donati, vissuta nella Firenze di fine duecento.
Chi era costei? Beh, Piccarda era una forza della natura; a 15 anni era la più bella ragazza di Firenze, la più ambita futura moglie, perchè era di assai ricca e nobile famiglia, quella che poteva avere tutto. Fama, lusso, onori e riverenze: lei, diversamente da qualsiasi altra donna del suo tempo (ma anche di altri tempi: attuali, recenti o antichi che siano) non doveva fare assolutamente nulla per ottenere tutte queste cose ma erano "tutte queste cose" che andavano da lei, spontaneamente, come farfalle posate su un fiore. Una sola cosa era a lei richiesta: un sì.
Non un "sì" qualsiasi, ovviamente, ma un Sì nuziale. Per lei, il fratello Corso Donati aveva organizzato il matrimonio del secolo, col ricchissimo Rossellino della Tosa, importante esponente politico dell'epoca. Piccarda, però, non era solo bellissima e ricca, ma possedeva anche un qualcosa che non era previsto possedesse una giovane fanciulla di quel tempo: Piccarda possedeva, incredibilmente, una libera volontà propria. Aveva dei desideri, dei progetti su se stessa che non erano, per così dire, in sintonia con quelli della sua famiglia. Del matrimonio per lei organizzato non voleva saperne, e non era, a quanto pare, un veto sullo sposo prescelto dal fratello, ma proprio un veto a prescindere.
Il suo desiderio era quello di sposarsi con la personalità che per lei era la più importante non solo di Firenze, dell'Italia o del mondo; ma quella più importante dell'universo e che lei amava davvero: il Signore Iddio.
Piccarda si fece monaca, nel convento fiorentino delle Clarisse. E qui subentrano i soprusi e le violenze: il fratello Corso, ovviamente, non accettò la cosa, o meglio, l'altrui volontà. Si organizzò, fece rapire Piccarda dal convento e la diede in sposa al suo prescelto. La leggenda poi vuole che Piccarda, sottomessasi infine alla superiortà della forza violenta del fratello, si ammalò di lebbra, morendone prima della "consumazione" del matrimonio. Ma non si è certi che si tratti davvero di leggenda, alcuni pensano che si tratti di storia vera fatta opportunamente passare per mito: l'ipocrisia, del resto, non è una "conquista" poi così recente.
Pensate ora se il caso di Piccarda si riproponesse al giorno d'oggi: quante pagine di giornali, servizi televisivi, programmi pomeridiani, plastici vespiani e altre diavolerie verrebbero fuori.
Anzichè "giornata della violenza alle donne", oggi sarebbe il "Piccarda day" in tutto il mondo.
E tutto, ovviamente, sarebbe incentrato sulla violenza, sul sopruso, sul sangue e sul dolore.
Ma visto che a raccontarci questa storia è stato Dante, forse sarebbe opportuno vedere cosa ne pensava lui dell' "Affaire Piccarda".
Nel suo mirabile e mirabolante viaggio ultramondano, il Sommo Poeta e Sommo Padre di tutti noi, trova Piccarda, manco a dirlo, nel Paradiso. Ma c'è un punto da non trascurare. Non è che per il fatto di essere in Paradiso, un beato sia qualcuno che in vita è stato, per così dire, "perfetto" in ogni cosa, come ci si potrebbe aspettare. Tra i beati che si incontrano nei diversi "cieli", infatti, si trovano personaggi che qualche "peccattuccio" ce l'hanno.
Il caso di Piccarda è particolare: Dante, che a quanto pare l'aveva conosciuta in vita, la trova in Paradiso nella "spera più tarda", cioè nel punto del paradiso più lontano dalle massime beatitudini; questo perchè Piccarda si trova tra quei beati che non hanno tenuto fede fino in fondo ai propri propositi; insomma, beata sì, ma penalizzata rispetto ad altri più vicini alle beatitudini più alte:
"E questa sorte che par giù cotanto
però n'è data, perchè fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto". - Paradiso III (54/57)
Cosa significa? Che Dante la rimprovera per non aver ammazzato il fratello quando l'ha rapita? Dante è un omofobo e odia le donne vittime di violenza? Niente di tutto questo.
Piccarda è beata, in Paradiso, sa che ha fatto in vita ciò che poteva, ma dove si trova ora ha acquisito quella consapevolezza che in vita non poteva avere: ha ceduto perchè si è comportata da vittima, perchè alla fine ha recitato quel ruolo per cui era stata educata: non poteva far altro che quello, quindi non può essere colpevolizzata in alcun modo, ma ora, da lassù, sta suggerendo ai "viventi" che fin che ci si considera "vittime" non si potrà far altro che trovare "carnefici", i quali faranno in modo che siano "negletti li nostri voti".
E, ovviamente, Piccarda non parla solamente alle donne vittime di violenza, ma parla a tutti; ci suggerisce di uscire dal malefico dualismo "vittima/carnefice", in cui è previsto che vinca sempre il carnefice e che la vittima immancabilmente soccomba.
Non so se voi ve ne accorgete, ma quando si celebra qualsiasi "giornata del..." c'è sempre in agguato il giochino della vittima/carnefice.
Fateci caso, poi vedete voi se non sia il caso di istituire anche il
Nella prima parte si accennava al fatto
che oggi non possiamo più disporre pienamente delle “libertà”
che fino a pochi mesi fa eravamo “convinti di possedere”. Si
potrebbe esprimere più precisamente il concetto asserendo che da
quando ci hanno imposto il famigerato lockdown non ci sentiamo più
“liberi”. In pratica, ci stiamo accorgendo (più o meno
inconsciamente) che in realtà non siamo stati mai veramente in
possesso delle nostre individuali e fondamentali “libertà”,
perchè se queste ci possono essere tolte dall'oggi al domani da
altrui decreto, significa che non sono mai state nostre, e questo
indipendentemente dal fatto che i decreti siano da ritenersi “giusti”
o “sbagliati”.
Certo, il concetto di “libertà” è talmente
ampio e dispersivo nei significati che gli si possono attribuire, che
è impensabile definirlo in poche righe; lascerei che siano filosofi
di professione e fama ad estrinsecarne i più profondi contenuti, io
mi limito a mettere la parola “libertà” tra virgolette, così da
lasciare, chiunque lo voglia, “libero” di dargli il significato
che preferisce; tanto, visti i tempi, la “libertà” è talmente
appiattita che praticamente nessuno può davvero travisarne il
significato corrente.
Ma se sappiamo a chi e a cosa
attribuire le attuali privazioni di “libertà”, a chi e a cosa
dobbiamo attribuire la mancanza di “libertà” che già avevamo in
passato?
C'è chi le chiama “forme/pensiero”
o “eggregore”, altri li chiamano “demoni”, altri ancora, meno
esotericamente, lo chiamano “conformismo”; qualcuno la vede come
conseguenza del consumismo, di cui è intrisa “l'anima” del
nostro tempo, altri lo concepiscono come un effetto collaterale
indesiderato (ma neanche tanto) del pur necessario “sviluppo
economico” (ma fino a quando si potrà mai “sviluppare” questa
“economia”?). Fatto sta che le minacce alla “libertà” tutti
le vedevano, ma nessuno se ne è mai accorto. Solo oggi non ci
sentiamo più “liberi”.
Questo è un mio ricordo che risale a
circa cinque anni fa.
“Vagavo nel nulla, cercando il tutto,
come sempre.
Stavolta, però, ho provato a cercarlo
nell'ampia metratura di un supermercato: ero convinto che a casa mancasse qualcosa per la cena, ma appena sono entrato mi sono
ricordato che la dispensa era piena di cose che potevano risolvere il
problema della cena. Ma ero già entrato, non mi andava di uscire dal
nulla con nulla. Quindi ho cominciato a guardare i prodotti, con la
speranza di trovare qualcosa che mi coinvolgesse. Al reparto frutta e
verdura, tra melanzane dalle dimensioni di angurie e carciofi che
sembravano tristi come salici piangenti, ho trovato un "signora
mia, ha visto come sono aumentate le zucchine? ... no, non intendo la
loro taglia, ma il prezzo" cui ha ribattuto un "ha fatto
bene a dirlo, perchè 3 euro al chilo per delle cucurbitacee verdi,
infondo, sono troppe. Ma si sposti, stia attenta all'extracomunitario
di colore che la sta per urtare col carrello: è così pieno che non
vede dove sta andando e se la urta le potrebbe scalfire il visone...
naturale, pelo folto, non è vero?".
Scappo disperato al reparto biscotti, e
mi imbatto in un "beh, quasi quasi mi compro sei pacchi di
frollini del porcile azzurro. Legga qui: privi di lattosio, glucosio,
ambrosio, destrosio, sinistrosio, simposio e Niccolò Carosio; adatti
per chi soffre di stipsi, pepsi, frizzi e lazzi. C'è in omaggio
anche la foto di Craxi. Che ne dice lei?". Non mi capacito che
quel signore, avvolto e sigillato nel suo loden, chieda proprio a me
un parere su una decisione così vitale per lui. Mi faccio forza e
dico: "Quaxi, quaxi...".
Comincio a sudare, proprio quando mi
avvicino al reparto surgelati, dove, quasi aspettasse il mio arrivo,
una vecchia bretone con un cappello e un ombrello di carta di riso e
canna di bambù, quasi mi salta negli occhi con un "E' dolce ma
magro, è squisito e non farlocco. Che cos'è?". E io "Certo,
non son sciocco, se affermo, deciso, ch'è il suo nuovo conogelato al
cocco, della nota marca 'quel che natura crea io non tocco' ".
La vecchia bretone, entusiasta della mia pronta risposta, è colta da
delirio di felicità e lancia con forza in alto il suo ombrello che
ricadendo a punta in giù va a conficcarsi proprio dentro un
passeggino spinto distrattamente da una signora truccatissima
taccododici, più intenta a conversare con la promoter del nuovo
rossetto Labbrad'or.
Io mi sento in trappola. Da una cella
frigorifera estraggo a sorte una scatolina di basilico tritato
surgelato e cerco di fuggire verso la cassa, che è a circa venti
metri da me, ma dopo due metri mi spiaccico contro la fila di gente
che aspetta di saldare il conto della spesa.
Diciotto metri di fila o spaghetti al
pomodoro senza basilico? Ecchecazz... piuttosto il digiuno.
Meglio il nulla al tutto. Soprattutto
se il tutto è nulla.”
Visti i tempi assurdi che
stiamo attraversando, nessuna citazione meglio di questa può
descrivere a fondo lo scoramento generale che li caratterizza.
Eppure, anche se attaccati
come siamo al momento attuale proviamo una certa sofferenza, calarsi
nel ricordo (che in questo caso non deve essere necessariamente
troppo indietro nel tempo) è una tentazione quasi irresistibile.
La rabbia che sentiamo
quando pensiamo a qualche mese fa, quando potevamo disporre di tutte
le “libertà” che eravamo convinti di possedere, cozza
violentemente contro la dolcezza del ricordo di un caffè o un
aperitivo preso al bar in compagnia di amici.
Il risultato di tale scontro
può avere esiti, in linea di massima, devastanti o costruttivi: in
pratica, o ci lasciamo devastare dalla rabbia, con pessime
ripercussioni sulla psiche e quindi sulla salute, oppure possiamo
riflettere, mettere in discussione il tipo di approccio che abbiamo
con la realtà, e in definitiva entrare in contatto con noi
stessi, allo scopo di conoscerci meglio; il succo dell'introspezione,
insomma, per quanto si possa trattare di una introspezione
superficiale.
Cercando proprio di
perseguire questo umile scopo, ho provato a ripercorrere all'indietro
le mie riflessioni, quelle che avevo scritto non moltissimo tempo fa
sul mio “profilo social”. Ciò che, in linea di
massima, mi è balzato all'occhio è il paradosso.
E', in effetti,
l'atteggiamento mentale, l'approccio psicologico che, stranamente, è
tale quale a quello che domina lo stato attuale.
Parlo per me, certo, ma
credo di non essere l'unico a constatare che così come oggi non
riusciamo a tollerare la situazione che stiamo vivendo, allo stesso
modo, solo pochi anni fa e non certo in un'altra epoca, eravamo
intolleranti verso cose, fatti, persone e situazioni che vivevamo
allora.
L'unica differenza è che il disagio di oggi è molto più
amplificato rispetto ad allora; ed è per questo che ci sentiamo quasi spinti
oltre i nostri limiti di sopportazione; ma se fossimo sinceri con noi
stessi, dovremmo ammettere che il disagio di oggi non è altro che il
“raccolto”, il frutto della semina fatta su quel terreno fertile che
era il disagio di ieri.
Forse, chissà, esaminandoci
meglio, dovremmo considerare altre “sementi” per i futuri
raccolti, ma questa è solo una mia considerazione personale,
ovviamente.
Ma iniziamo la rapsodia dei
ricordi. Circa tre anni fa, i media (i quotidiani in primis)
lanciavano le loro campagne di sdegno contro le numerose violenze
carnali che avevano deciso di mettere in prima pagina. Non che le
violenze carnali (crimine tra i più infami) mancassero alle cronache
di allora (di ogni tempo, ahimè, si dovrebbe dire), è solo che, evidentemente, avevano deciso di usarle come strumento catartico con lo scopo di
diffondere il loro “oro nero”: l'odio.
Questo, di seguito, il mio
“ricordo” di tre anni fa:
“Vagavo nel nulla,
cercando il tutto. Addirittura l'agognavo mentre, seduto ad un tavolo
del dehors di un bar di industriata provincia, di mattina presto, in
una stagione che dovrebbe essere l'autunno, sorseggiavo un caffè.
La caratteristica del posto
è che chi lo abita non desidera stare tranquillo, e se la giornata è
appena iniziata, il canto del gallo che dovrebbe essere l'inno alla
natura del posto, è soffocato dalle voci alte ed agitate di chi
scartabella i quotidiani freschi di stampa che col loro fruscio fanno
il coro col tintinnio delle tazzine percosse dai cucchiaini che,
invano, mescolano lo zucchero nel caffè.
Non può mai essere dolce il
caffè di chi legge il giornale la mattina da queste parti; non se le
notizie sono tali da far travasare la bile a chi le legge; non se chi
le legge non ha sufficiente memoria da ricordare che tali notizie
sono il ricapitolarsi di fatti che sono sempre successi. Così il
lettore crede che le violenze carnali, di cui i giornali celebrano il
revival in questo periodo, siano un male recentissimo importato da
paesi "sottosviluppati", e si indigna, quasi compiaciuto di
aver riconosciuto l'origine e gli autori delle schifose malefatte.
Un'indignazione che sentono come necessaria, e che ogni mattina viene
celebrata allo stesso modo, o per questo o per altro scempio
raccontato dai magici fogli di carta che, imperterriti, continuano i
loro duetti con tazzine e cucchiaini, e che raccontano "tutto e
nulla"; basta crederci.
E' così che tanto livore e
rabbia salgono come nebbia e si confondono con la nebbia degli
scarichi delle auto che già cominciano a rumoreggiare per le strade,
facendo tossire persino i galli che, ahimè, debbon tacere.
Assisto a tutto questo tra
il divertito e l'attonito, e mi basta chiudere per un istante gli
occhi per vedermi altrove; magari a Paris, in cima alla scalinata di
Montmartre, in una fredda e uggiosa sera invernale, da dove ammiro
una metropoli del tutto indifferente persino a sè stessa: alle
spalle la famosa basilica, poco sotto l'arcana giostra con cavalli
bianchi, ormai inoperosa, e più sotto la vita notturna Parigina, col
suo artistico brulicare di personaggi multicolori; e una musica che
sale con la bruma.
Un pallido e beffardo jazz, senza tempo nè luogo.
Da tutto a nulla non c'è
distanza, non c'è sforzo.
In mezzo alla pianura, una vaga foschia cancella il disegno di remoti monti. E la Terra sembra più enorme: pare gonfiare il ventre in uno sbadiglio; batte le sue palpebre, mentre dalle narici esala dolce fumo di sterpaglie brucianti: il suo perpetuo aroma, ancestrale, inebriante. Un Sole morente dipinge con forza colori tenui, sopra una tela di nuvole: la sua Promessa di Resurrezione. Mentre io cammino su questa Terra, osservo il suo passo, e guardo il mio respiro.
Tutti invitati stasera, anzi stanotte, all'appuntamento più "in" dell'anno.
Il Gran Gala a stelle e strisce che assegnerà il titolo di "Padrone del Mondo" al vincitore.
In lizza i due campioni di razza (e sappiamo tutti che razza di...) leader dei due opposti schieramenti "dem" e "rep".
Il primo, lo sfidante, è un gagliardissimo omino fatto tutto di plastica, erede di una lunghissima dinastia di presidenti che dal 1964 al 2016 ha dominato... ma che dico l'America, ma che dico le due Americhe, ma che dico il mondo, ma addirittura il cosmo; nell'ordine si sono avvicendati: Lyndon Johnson, Richard Nixon, Jimmy Carter, Ronald Reagan, George Bush Sr., George Clinton, George "Dabliù" Bush jr. e Barack Obama. L'omino promette che sarà bravissimo come loro, che sono tutti buoni e bravi, che amano la pace e non fanno mai la guerra, a meno che non serva alla (loro) democrazia
Il secondo, detentore del titolo, omino di plastica anche lui, ma più corpulento e col ciuffone rosso, inventore del nuovo filone "il mondo è un reality show" non è erede di nessuno, ma tanti (e tante, soprattutto) si azzufferanno per la sua eredità costruita con scrupolo per anni e anni di fiction su fiction.
Durante i quattro anni del suo mandato, a parte propagare odio nel paese che dice di voler far tornare grande, non ha combinato un emerito cxxxo, ma in compenso ha inventato lo show "guarda anche tu cosa ti combina il deep state", di cui è non solo autore e regista, ma anche protagonista (anche se gli piace mascherarsi e farsi chiamare qanon).
Solo per questo colpo di genio, a cui hanno creduto parecchi individui in tutto il mondo, egli parte da favorito, infatti i sondaggi lo danno in svantaggio, come quattro anni fa quando vinse.
Siore e siori, non potete mancare; sarà uno spettacolo incredibile, che in questi tempi di noia è proprio quello che ci vuole; le opposte tifoserie sono già schierate e nella spasimante attesa si lanciano strali e dardi come non si era mai visto in passato; mentre qualche fan di qanon incita tutti a sgranare rosari perchè si confermi il vincitore di quattro anni fa (affinchè l'odio non solo razziale trionfi e si propaghi ulteriormente), dalla curva dei tifosi opposta, la stampa "perbene" e perbenista, all'unisono, non fa che incitare il pubblico a suon di: cattivo, maleducato e persino "negazionista" il detentore del titolo, il nostro omino di plastica, invece, è buono e bello.
Venite, tutti voi che pensate che domani con un nuovo presidente USA(to) il mondo sarà migliore, voi che pensate che quella di stanotte sia la sfida finale tra "il bene e il male", l'importante è che crediate che chi vince cambierà le cose che vi hanno insegnato ad odiare; e non importa se il vostro beniamino perderà o vincerà, tanto si replica tra quattro anni, come alle olimpiadi.
Tratta dal libro “101 storie Zen”,
ecco una storia Zen:
Non si può rubare la luna.“Ryokan, un maestro Zen, viveva in
modo molto semplice in una piccola capanna ai piedi di una montagna.
Una sera un ladro entrò nella sua capanna, solo per scoprire che non
c'era nulla da rubare. Al suo ritorno, Ryokan lo colse sul fatto. <E'
probabile che tu sia venuto da lontano per farmi visita>, disse
all'intruso, <e non dovresti andare via a mani vuote. Ti prego,
come dono accetta i miei vestiti>. Il ladro rimase sbalordito.
Prese i vestiti e scappò via.
Ryokan sedette nudo ad osservare la
luna. <pover'uomo>, pensò, <avrei voluto potergli dare
questa splendida luna>.”
Fine della storia Zen.
Nella prefazione dello stesso libro,
curata da Nyogen Sanzaki e Paul Reps, si legge: “Lo Zen ha molti significati, nessuno
dei quali completamente definibile. Se sono definiti, non sono Zen.”
Dire che si può imparare qualche cosa
di “preciso” in una storia Zen, dunque, è impossibile.Tutti i significati che ciascuno di noi
può trarre da una qualsiasi storia Zen, è al contempo vero e falso,
giusto e sbagliato.
Alla faccia della nostra intelligenza
di uomini e donne che vivono nella società odierna, la più evoluta
e “scientifica” che mai si sia vista da che mondo è mondo!!! Come si permettono questi orientali di
venirci a dire che noi occidentali non possiamo realmente comprendere
qualsiasi significato di qualsiasi insegnamento, per antico o
distante che sia?
Noi occidentali, che già da millenni
dalle Sacre Scritture abbiamo interpretato le più intricate
allegorie, secondo questi orientali non saremmo in grado di risolvere
i loro infantili enigmi: ma scherziamo????
Anche prendendo la storiella che è
fedelmente trascritta all'incipit, per esempio, risulta di una
facilità disarmante svelarne le allegorie.E' chiaro che il personaggio del
maestro Zen altri non è che l'italiano medio, mentre il personaggio
del ladro è l'allegoria dell'uomo politico che entra e riduce il
pover'uomo in mutande. La morale è chiarissima, quindi: l'italiano
medio è sempre sottomesso al politico ladro che lo vessa e lo riduce
in povertà. Il derelitto, con quell'indomito spirito ironico che
contraddistingue l'italico sentire, peraltro rintracciabile in
qualsiasi spettacolo di varietà televisivo, o più frequentemente
nei post dei social network, si rammarica di non potergli dare anche
la luna.
Sì, beh... in effetti qualcosa non
torna in questa interpretazione: s'è mai visto un politico
“sbalordito” per aver sottratto qualcosa? No, in effetti... forse
c'è un significato più preciso nelle allegorie. Forse il ladro, quando entra nella casa
sa benissimo che non c'è nulla da rubare, quindi non entra per
prendersi qualcosa di “materiale”. Infatti è noto che oggi il
governo non fa altro che portarci via le nostre libertà
fondamentali. Ma... allora come mai l'italiano medio gli concede
volentieri quello che cerca, dandogli di buon grado persino i vestiti
(forse in cambio di una mascherina)?
L'italiano medio è davvero così
sottomesso (o scemo, secondo molti)? E poi, cosa c'entra la luna?
Mi sa che, per le allegorie devo
partire da una storia Zen più semplice, non di quelle del libro di
cui sopra; ad esempio, quella che ho sentito per caso in una
trasmissione televisiva di "stand-up comedy", raccontata da una simpatica ragazza
orientale:
Storia Zen (senza titolo):
“C'era una volta, un villaggio
abitato da brave persone. Tutti erano brave persone, tranne uno, che
era cattivo. Un giorno, il cattivo morì.”
Fine della storia Zen.
E anche della nostra, “occidentale”
capacità di capire. 😃
“L'etimologia della parola poesia
è da ricollegare al latino pŏēsis
dal grecoποίησις,
derivato a sua volta da ποιέω
= produrre, fare, creare ed, in senso più ampio, comporre.
Andando ancora più indietro, si risale alla radice sanscrita pu-
che ha appunto il significato di generare, procreare. La
poesia è, in altri termini il frutto della creazione artistica che
raggiunge vette tanto sublimi quanto riesce a trasfigurare il dolore,
la sofferenza, le tragedie in bellezza estetica ed etica.”
Dal sito Etimoitaliano.it
Quando fu assassinato Pier Paolo
Pasolini, ormai 45 anni fa, il grande Scrittore Alberto Moravia
dichiarò, affranto, durante la sua orazione funebre: “Prima di
tutto, abbiamo perso un Poeta, e di Poeti non ce ne sono tanti nel
mondo: ne nascono 3 o 4 soltanto in un secolo”.
Sarebbe fin troppo ovvio riconoscere in
queste parole la pura verità, se associamo la figura del Poeta a chi
le proprie creazioni le imprime sulla carta. Ma credo proprio che
questo, oggi, non possiamo proprio più farlo, visto che, stando al
ragionamento del celebre scrittore, da quella sua famosa orazione
funebre, di Poeti direi che se ne sono visti sempre meno.
Ma la Poesia, quella vera, quella
descritta dalla definizione etimologica di cui sopra, non è morta,
né può scomparire.
Quindi, dov'è la Poesia oggi, in un
mondo senza più Poeti?
A questo pensavo mentre mi trovavo nel
mezzo della “grande” città nei pressi della quale abito, e
subito mi sono proposto di cercarla: non sono sicuro di averla
veramente trovata , quindi non prendetemi molto sul serio, vi
conviene. Però, ai miei occhi, un certa qual Poesia si è mostrata.
Ho visto la Poesia nei riflessi del
Sole dell'umido mattino autunnale, che illuminavano portici di
pietre antiche; ho visto quei raggi correre felici, indisturbati dal
traffico frenetico sull'asfalto, andandosi a posare, illuminandolo,
sul sorriso di un accattone; quasi sentisse, nel tintinnare di poche
monete, musiche da una vita futura.
Credo fosse Poesia, anche se il suo
poeta forse non lo sa, il furioso ansimare di un corpulento signore
che rincorreva uno strapieno veicolo pubblico: quando il lungo
autobus, comprensivo, si è arrestato e ha spalancato a lui le
capienti viscere, non ho potuto intuire quanto sollievo ci fosse in
quel viso nascosto da un decreto, né il sole si è preoccupato di
svelarlo, limitandosi a posare solo un piccolo raggio sulla fronte
spaziosa, illuminando fuggevolmente piccolissime poetiche gocce di
sudore.
E' un bell'ardire scorgere Poesia
quando un fedele, seduto in completa solitudine su una panca in una
cattedrale vede avvicinarsi (ma non troppo) una suora, munita di
credenziali vaticane, che gli spiega che in principio sì, era il
Verbo, ma oggi, in ossequio alla Grande Madre Scienza, una strana
divinità ha deciso che il Verbo va coperto, pena l'esclusione da
quella “casa”, che ora, evidentemente, appartiene a un dio
sottomesso.
In effetti, è molto più Poetico il
sorriso, illuminato dal sole, di quel fedele, che trova in quella
costrizione un consiglio per poter trovare il Divino altrove, dove
non si tenta di sottometterlo.
Però, anche nella scienza moderna c'è
senza dubbio molta Poesia: ce ne si accorge vedendo come si
accaniscono l'uno contro l'altro due sostenitori di opposte correnti
di pensiero: facili, di questi tempi, trovarli in qualsiasi civile
consesso.
Il primo sostiene che la verità è
nell'anidride carbonica, che va respirata a pieni polmoni, aiutandosi
in questo da provvidenziali apparati, di recente introduzione nel
commercio, che impediscono che ciò che l'organismo umano scarta
tramite l'espirazione venga disperso nell'ambiente, ma proprio grazie a
questo manufatto, detto “mascherina”, venga invece reintrodotto
nell'organismo: la scienza farmaceutica, secondo questa corrente di
pensiero, non può difettare di altruismo.
Per contro, l'altro, contraddice tale
tesi, sostenendo che, al contrario, la verità sta nell'aria che si
respira nell'ambiente, e che tali “mascherine” sono dannose
perchè impediscono all'ossigeno di fluire nell'organismo, e si sa,
l'ossigeno di oggi, pieno all'inverosimile delle polveri sottili
delle città moderne è un toccasana per la nostra sacra salute.
Entrambi questi avversari sono talmente
sicuri e fieri delle proprie idee e delle proprie certezze che
arrivano ad odiare talmente i loro rispettivi oppositori, da passare
le proprie giornate a trovare motivi per danneggiare l'altro, al
punto di desiderarne l'annientamento totale.
Ne ho visti due, per strada,
accapigliarsi solo a parole, in rispetto alle distanze stabilite per
decreto: questo provocava in loro un senso di impotenza, di odio
sempre crescente: li ho visti cadere a terra, l'uno per aver
respirato troppe polveri sottili, l'altro per aver smesso del tutto
di respirare.
E' stato davvero Poetico vederli cadere
a terra e rimbalzare, come palloni da basket: palleggiati da
giocatori senza maschera e senza volto, e scaraventati infine a
canestro.
Poeti, forse, non ne stanno nascendo
più, come sosteneva Moravia, ma quanta Poesia c'è intorno a noi.
Specialmente dove non si sospetta che ci sia.