Se c'è una cosa che si rende detestabile più che mai in questi tempi è l'ipocrisia.
Ne vediamo a fiumi intorno a noi, scritta sui giornali, proiettata sugli schermi televisivi e affissa sui muri. La vediamo, la tocchiamo, ce ne vestiamo, la mangiamo e, quel che è peggio, la digeriamo pure. Mi chiedo che senso abbia istituire "la giornata del..." ad ogni piè sospinto, per qualsiasi argomento che provochi fastidio, dolore o, peggio, lutto.
Per tutte le cose che sono causa di odio, dolore, pena e pietà è stata istituita "la giornata del...".
Si vuole, dicono, "sensibilizzare" le coscienze alle piaghe che affliggono la nostra cosiddetta "civiltà", ma a me sembra che i risultati di tale "sensibilizzazione" portino effetti del tutto opposti a quelli degli intenti dichiarati: a tal punto che si direbbe che gli intenti non siano affatto quelli, per l'appunto, dichiarati, ma quelli, deleteri, che fanno sì che ogni anno ci si debba ritrovare a ribadire statistiche e numeri che dicono chiaramente che "la giornata del...", celebrata lo scorso anno, non ha migliorato nulla, e questo nella migliore delle ipotesi, ma in compenso aumentano ogni volta di più rabbie e rancori. Oggi, per esempio, si celebra la "giornata contro violenza alle donne". Da non so quanti anni la si celebra, ma voi credete che sui giornali di domani non troverete qualche trafiletto, se non addirittura titoli su più colonne che raccontino di qualche stupro, qualche omicidio o qualche sopruso perpetrato verso donne di qualsivoglia età? Oppure credete che da domani, per esempio, qualche direttore di giornale (magari proprio uno di quelli che oggi dicono di mettere all'indice la violenza alle donne) tratterà una sua dipendente in maniera più equa rispetto al di lei collega maschio, fino a privarsi di una pur modesta quota dei suoi preziosi, sudatissimi e mai abbastanza cospicui introiti? O, ancora, pensate che lo stesso direttore desisterà dallo "sbirciare" in modo becero e concupiscente tra le pieghe e gli orli della minigonna di ordinanza che indossa la sua avvenente segretaria?
Uso l'esempio del direttore di giornale solo per evidenziare l'ipocrisia corrente, ma è fin troppo ovvio che l'esempio si estende ben al di là dei locali dove si propagano le campagne della "giornata del...".
Ma dalle più alte sfere ai più bassi fondi, quel che conta è che si sia convinti che "la giornata del..." è importante e che quindi, per oggi, si debba parlare della violenza alle donne.
Va bene, ci sto, parliamone. Ma voglio farlo un po' a modo mio.
A testimonianza del fatto che il problema della violenza alle donne è qualcosa di molto antico e molto più profondo di quanto una semplice e innocua "giornata del..." possa concepire, mi rivolgerò al Sommo Poeta in persona, pescando dal suo infinito serbatoio di Amore e Saggezza, estraendone la storia di Piccarda Donati, vissuta nella Firenze di fine duecento.
Chi era costei? Beh, Piccarda era una forza della natura; a 15 anni era la più bella ragazza di Firenze, la più ambita futura moglie, perchè era di assai ricca e nobile famiglia, quella che poteva avere tutto. Fama, lusso, onori e riverenze: lei, diversamente da qualsiasi altra donna del suo tempo (ma anche di altri tempi: attuali, recenti o antichi che siano) non doveva fare assolutamente nulla per ottenere tutte queste cose ma erano "tutte queste cose" che andavano da lei, spontaneamente, come farfalle posate su un fiore. Una sola cosa era a lei richiesta: un sì.
Non un "sì" qualsiasi, ovviamente, ma un Sì nuziale. Per lei, il fratello Corso Donati aveva organizzato il matrimonio del secolo, col ricchissimo Rossellino della Tosa, importante esponente politico dell'epoca. Piccarda, però, non era solo bellissima e ricca, ma possedeva anche un qualcosa che non era previsto possedesse una giovane fanciulla di quel tempo: Piccarda possedeva, incredibilmente, una libera volontà propria. Aveva dei desideri, dei progetti su se stessa che non erano, per così dire, in sintonia con quelli della sua famiglia. Del matrimonio per lei organizzato non voleva saperne, e non era, a quanto pare, un veto sullo sposo prescelto dal fratello, ma proprio un veto a prescindere.
Il suo desiderio era quello di sposarsi con la personalità che per lei era la più importante non solo di Firenze, dell'Italia o del mondo; ma quella più importante dell'universo e che lei amava davvero: il Signore Iddio.
Piccarda si fece monaca, nel convento fiorentino delle Clarisse. E qui subentrano i soprusi e le violenze: il fratello Corso, ovviamente, non accettò la cosa, o meglio, l'altrui volontà. Si organizzò, fece rapire Piccarda dal convento e la diede in sposa al suo prescelto. La leggenda poi vuole che Piccarda, sottomessasi infine alla superiortà della forza violenta del fratello, si ammalò di lebbra, morendone prima della "consumazione" del matrimonio. Ma non si è certi che si tratti davvero di leggenda, alcuni pensano che si tratti di storia vera fatta opportunamente passare per mito: l'ipocrisia, del resto, non è una "conquista" poi così recente.
Pensate ora se il caso di Piccarda si riproponesse al giorno d'oggi: quante pagine di giornali, servizi televisivi, programmi pomeridiani, plastici vespiani e altre diavolerie verrebbero fuori. Anzichè "giornata della violenza alle donne", oggi sarebbe il "Piccarda day" in tutto il mondo.
E tutto, ovviamente, sarebbe incentrato sulla violenza, sul sopruso, sul sangue e sul dolore.
Ma visto che a raccontarci questa storia è stato Dante, forse sarebbe opportuno vedere cosa ne pensava lui dell' "Affaire Piccarda".
Nel suo mirabile e mirabolante viaggio ultramondano, il Sommo Poeta e Sommo Padre di tutti noi, trova Piccarda, manco a dirlo, nel Paradiso. Ma c'è un punto da non trascurare. Non è che per il fatto di essere in Paradiso, un beato sia qualcuno che in vita è stato, per così dire, "perfetto" in ogni cosa, come ci si potrebbe aspettare. Tra i beati che si incontrano nei diversi "cieli", infatti, si trovano personaggi che qualche "peccattuccio" ce l'hanno.
Il caso di Piccarda è particolare: Dante, che a quanto pare l'aveva conosciuta in vita, la trova in Paradiso nella "spera più tarda", cioè nel punto del paradiso più lontano dalle massime beatitudini; questo perchè Piccarda si trova tra quei beati che non hanno tenuto fede fino in fondo ai propri propositi; insomma, beata sì, ma penalizzata rispetto ad altri più vicini alle beatitudini più alte:
"E questa sorte che par giù cotanto
però n'è data, perchè fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto". - Paradiso III (54/57)
Cosa significa? Che Dante la rimprovera per non aver ammazzato il fratello quando l'ha rapita? Dante è un omofobo e odia le donne vittime di violenza? Niente di tutto questo.
Piccarda è beata, in Paradiso, sa che ha fatto in vita ciò che poteva, ma dove si trova ora ha acquisito quella consapevolezza che in vita non poteva avere: ha ceduto perchè si è comportata da vittima, perchè alla fine ha recitato quel ruolo per cui era stata educata: non poteva far altro che quello, quindi non può essere colpevolizzata in alcun modo, ma ora, da lassù, sta suggerendo ai "viventi" che fin che ci si considera "vittime" non si potrà far altro che trovare "carnefici", i quali faranno in modo che siano "negletti li nostri voti".
E, ovviamente, Piccarda non parla solamente alle donne vittime di violenza, ma parla a tutti; ci suggerisce di uscire dal malefico dualismo "vittima/carnefice", in cui è previsto che vinca sempre il carnefice e che la vittima immancabilmente soccomba.
Non so se voi ve ne accorgete, ma quando si celebra qualsiasi "giornata del..." c'è sempre in agguato il giochino della vittima/carnefice.
Fateci caso, poi vedete voi se non sia il caso di istituire anche il
"Piccarda day".
Marco Bertelli
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